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«Mio padre era un arameo errante»

Suona lapidaria la professione di fede che Mosè consegna al popolo di Israele, secondo il libro del Deuteronomio (26,5). Una fede che è memoria: è guardare a un passato lontano, per ricordare un presente sempre attuale nel sangue dell’Israelita: “mio padre era un arameo”, uno straniero quindi, e per di più uno straniero errante, sempre in cerca di casa. Parole, inoltre, che Mosè prescrive nel momento in cui Israele offre le primizie di quella terra che Dio gli ha promesso; a ricordare il fatto, appunto, che la terra non è sua né di alcun altro, ma è proprietà di Dio. E Israele, figlio di un arameo errante, è un ospite: gradito, voluto, difeso e amato profondamente dal padrone di casa, ma ospite. Chiamato quindi a custodire quella casa che però non gli appartiene, orgoglioso di poterla abitare e di poterla rendere bella più che mai, e chiamato ad essere a sua volta accogliente, proprio perché impossibilitato a firmare un contratto di proprietà: la terra gli viene promessa e consegnata da Dio, ma rimane sua.

Ogni viaggio in Israele fa tornare a galla questa consapevolezza. Che tra l’altro, a ben guardare, è la condizione di ciascuno di noi: in fondo viviamo tutti in un perenne stato di migrazione, continuamente in ricerca di una casa, di una dimensione che ci faccia sentire arrivati, accolti e definitivamente in pace. Caratteristica di ciascuno, ma in Israele si percepisce forse più che altrove. Le contraddizioni di cui questa terra santa è ricchissima sono conosciute anche a chi non ci ha mai messo piede, e in qualche modo sono il concentrato di una contraddizione che attraversa tutta la storia dell’umanità. Almeno da Babele in poi: cioè da quando l’uomo, presuntuosamente convinto di poter toccare il cielo, si è trovato ad essere disperso su tutta la terra, in una confusione di lingue che nasconde una confusione di pensieri, di atteggiamenti, di cuori contrapposti gli uni agli altri (cfr. Gen 11,1-9). Per certi versi, dunque, in Israele tutto ciò sembra essere più evidente, e quasi sembra essere l’unica cifra di comprensione della realtà, ammesso che di reale comprensione si possa parlare. Le contrapposizioni tra i popoli, tra le lingue, tra le fedi e tra le diverse tradizioni di ciascuna fede sono sotto gli occhi di tutti in Israele e a Gerusalemme; te lo sussurrano già i cartelli stradali, rigorosamente in ebraico, arabo e inglese, quasi una versione moderna di quel titolo sopra la testa del Crocifisso, che Pilato ha dovuto far scrivere in ebraico, latino e greco, perché fosse capito da tutti. Noi occidentali – va riconosciuto – siamo molto bravi a cogliere e ad amplificare questi contrasti: che pur ci sono e fanno male e restano una spina nel fianco di qualsiasi forma di convivenza umana, e che probabilmente gridano anche la denuncia di una politica a dir poco miope e inconcludente.

Contrasti, però, che dall’altra parte – e anche questo va riconosciuto – non sono l’unica fotografia di questa terra. Chi ha la pazienza di uno sguardo un po’ più attento, scopre particolari che non tutti gli obiettivi sono in grado di fotografare. Lo ricordano quei rabbini – quindi ebrei – che si battono perché vengano riconosciuti i diritti dei palestinesi, musulmani o cristiani che siano, perché non ci si accontenti di dire semplicisticamente che quella situazione è un problema loro; lo gridano con il loro dolore quelle madri ebree e palestinesi, accomunate dal dramma di aver perso un figlio in un attentato terroristico, perché che sia classificato tra le vittime o tra gli attentatori, un figlio è sempre un figlio; lo indicano le suore del Caritas Baby Hospital di Betlemme, che accolgono e curano bimbi malati dai territori palestinesi ma che hanno convenzioni con i maggiori ospedali di Gerusalemme, e che da anni pregano lungo il muro che divide Israele dai Territori, convinte che presto o tardi cadrà anch’esso, come tutti i suoi simili sparsi sul pianeta; lo fanno capire a chiare lettere gli schiamazzi dei ragazzi, che si incontrano ovunque e che nei loro abiti ricordano le tante tradizioni religiose e culturali che qui si incrociano, quasi una sfilata di moda multietnica, multireligiosa, e soprattutto capace di una convivenza molto più concreta di quella che certi loro capi vorrebbero imporre.

«Mio padre era un arameo errante», quindi, e tale resta. Chi ne è consapevole, però – altra cosa che va riconosciuta – prende la vita in un modo diverso: perché si rende conto che la casa in cui abita è aperta anche ad altri, perché si accorge che ciascuno di noi ha sempre una fotografia in più da scattare, qualcosa in più da capire, sperimentare, gustare. Esattamente come uno straniero, e tale rimane ogni uomo: costretto, quasi, a fare i conti con una definitività che proprio non gli appartiene. Babele continua a ricordarcelo, ma continua anche a darci la chiave per andare al di là della confusione di lingue, cuori e pensieri. Già, perché “Babele” significa “porta di Dio”: quasi a dire che l’incontro con l’altro ci aiuta terribilmente a incontrare l’Altro.