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Il mito della motocicletta come arte

Dal modello di Easy Rider, che dà il titolo alla mostra, gli esemplari di due ruote in mostra sono più di cinquanta; modelli, firme e colori diversi che caratterizzano le carrozzerie sotto i riflettori delle Scuderie Juvarriane, alla Venaria Reale, fino a febbraio dell’anno prossimo. Si parla di opere di ingegneria e di design frutto di una ricerca tecnologica e stilistica, ma anche di indagine da parte dell’arte e della cultura che, da quando esiste la motocicletta, non hanno potuto ignorare la portata rivoluzionaria che questo mezzo, ma soprattutto gli amanti delle due ruote, hanno portato nell’immaginario collettivo. Un mezzo per partire, emanciparsi; sogno di viaggi e luoghi ancora da scoprire. Né i tanti centauri, né gli artisti e tanto meno i curatori possono essere esenti dal fascino che le moto possono esercitare. Di questo percorso parla il curatore, Luca Beatrice.

Di che cosa diventa simbolo la motocicletta?

«Innanzitutto di un grande desiderio di libertà. Dalla prima Vespa fino a una Superbike che va talmente veloce da dover fare attenzione; chiunque abbia provato a guidare una moto, Harley o Ducati, che fosse una moto italiana o giapponese, saprà esattamente di cosa sto parlando. Un desiderio di aria, di spazi aperti, che indubbiamente è diventato un grande mito non solo per gli esperti del settore ma per chiunque ami la cultura.

Sicuramente l’esperienza personale ha un peso. Io ho il ricordo di essere cresciuto su una motocicletta, prima da passeggero, quand’ero molto piccolo con mio padre, appena ho potuto da solo. Adesso sono felicemente in sella a un’Harley ma non disdegno assolutamente altre moto di altre forme, nazionalità, stili».

Chi non fa parte di questo mondo può avere l’impressione che si tratti di una realtà chiusa. Attraverso la mostra si può sfatare questa sensazione?

«Direi di sì. Partirei come esempio dalle tantissime persone che hanno affollato l’inaugurazione a Venaria. Intanto ci sono tantissime donne appassionate di motociclette, studiando questa storia mi sono accorto che uno dei primissimi viaggi in moto del ‘900 lo fecero due donne nel 1932. Secondo me la moto non è mai pericolosa, semmai può esserlo chi la guida; la moto è stile, forma, design, innovazione, prestazione, ma è anche soprattutto cultura, basti pensare a quanto l’arte, il cinema, la letteratura abbiano ampiamente analizzato questo straordinario mezzo».

Cosa troviamo in mostra?

«Innanzitutto oltre cinquanta modelli di motociclette, messe insieme non in ordine cronologico ma secondo una serie di suggestioni che vanno dal design italiano alla tecnologia giapponese, dal mito americano alla ricerca dell’Africa (si pensi alla Parigi-Dakar), dall’off road al grande omaggio che il cinema hollywoodiano ha fatto alla motocicletta. Ci sono tante belle opere d’arte tra cui l’autoritratto di Ligabue che negli anni ‘50 andava a dipingere nelle campagne intorno a Reggio Emilia in sella ad una Guzzi rossa che noi abbiamo in mostra. Attraverso un interessante punto di vista musicale mostriamo i dipinti di Paul Simonon, uno dei leader dei Clash, che nel 1979 fece esplodere Londra fracassando il suo basso, e che da alcuni anni si è messo a dipingere quadri che hanno come soggetto le moto».

Salta sicuramente all’occhio il contrasto tra il soggetto della mostra e gli ambienti delle Scuderie Juvarriane. Che legame si crea tra questi due elementi?

«Io ricordo perfettamente che nel 1998 mi trovavo al Guggenheim di New York, il tempio dell’arte moderna che accoglie Pollock, Picasso, Kandinsky, Matisse, e il direttore, Thomas Krens, decise di aprire una mostra fantastica, The art of motorcycle, che in quattro sedi totalizzò circa due milioni di visitatori, un record assoluto per la storia del Guggenheim e dei musei americani. Frank Gehry venne chiamato a progettare l’allestimento, era una mostra straordinaria, e ricordo bene che vent’anni fa pensai che avrei voluto fare una cosa del genere. Dunque il contrasto tra il Gugghenaim di Wright e le moto, la meravigliosa architettura settecentesca della Venaria e un mito del ‘900 secondo me, più che contrastarsi, dialogano».