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I confini come luoghi di incontro

Tratto da sito Chiesa valdese

Nei tre giorni di incontri dell’assemblea generale della Chiesa riformata unita di Gran Bretagna (URC), composta da pastori e membri di chiesa inviati dai tredici sinodi (l’equivalente dei distretti nelle chiese valdesi e metodiste) sparsi fra Inghilterra, Galles e Scozia, non sono stati nascosti i problemi presenti sul tappeto. Anche in Gran Bretagna la secolarizzazione si va affermando con sempre maggior forza e influenza chiese grandi come la Chiesa d’Inghilterra o la Chiesa metodista ma anche, e in modo forse ancora più drammatico, le chiese piccole (50.000 membri circa) come la URC. E così, durante l’assemblea, con grande compostezza e un po’ di commozione, si è annunciata la chiusura di ben quarantadue chiese locali nelle tre nazioni: un momento triste ma vissuto nella gioia per quanto le chiese hanno dato nei loro anni di testimonianza e nell’assoluta consapevolezza che anche se non vi sarà più una comunità locale dell’URC a Folkstone oppure a Yeovil la chiesa di Gesù Cristo non verrà meno in quei luoghi.

La URC è una chiesa molto attenta alle questioni sociali concrete, quelle con cui si confronta quotidianamente ogni singola comunità; quest’anno abbiamo festeggiato i trent’anni dalla consacrazione dei primi Church related community worker, diaconi di comunità che partecipano per un tempo limitato alla vita di una chiesa locale che abbia in mente di aprirsi al paese o città in cui vive con progetti di inclusione sociale, generalmente interdenominazionali o ecumenici. 

 

L’assemblea generale è soprattutto un momento importante per riflettere insieme su iniziative e progetti rivolti al futuro e per valutare quelli già in essere. È anche l’occasione per cercare insieme quali strumenti di testimonianza fornire ai sinodi e alle chiese locali, quali priorità indicare, in quali riflessioni coinvolgerli. Quest’anno l’assemblea ha riflettuto sul cammino iniziato nell’assemblea precedente “Walking the way, living the life of Jesus today”(Camminare sulla strada, vivere la vita di Gesù oggi), nato per capire quali possano essere oggi le forme di testimonianza quotidiana e concreta con cui annunciare la propria fede cristiana. Si è presa visione delle risorse fornite alle chiese, rilevando con gioia quanto siano state apprezzate e soprattutto utilizzate e condivise a tutti i livelli (per chi volesse saperne di più: https://urc.org.uk/our-work/walking-the-way.html). Sono state inoltre presentate le attese conclusioni del gruppo di studio sui 20-40enni nella chiesa; o meglio, più che di conclusioni si è trattato di una verifica di tappa. Dopo quattro anni di incontri, valutazioni e studi, il gruppo di lavoro richiesto dalla passata assemblea generale ha espresso sì preoccupazioni e difficoltà per la scarsa presenza di fratelli e sorelle di questa fascia d’età nelle chiese, ma ha anche raccontato di buone pratiche, di chiese intergenerazionali, di realtà in cui i giovani partecipano alla vita della chiesa portando il loro contributo e non semplicemente prolungando il lavoro di chi c’era prima di loro.

Vi è stato poi un momento che ha coinvolto in modo particolare noi invitati dall’ecumene europea. Sabato mattina una cinquantina di persone ha partecipato alla tavola rotonda “Brexit, borders and belonging”(Brexit, frontiere e appartenenza) durante la quale l’assemblea ha voluto provare a riflettere, ascoltando anche le voci di chi proviene da Oltremanica, su come la decisione britannica di lasciare l’Unione europea sia stata percepita dai partner europei e quale possa essere il ruolo delle chiese affinché le frontiere non diventino automaticamente anche barriere. Assieme ad altri partecipanti ho potuto portare il mio contributo raccontando come, nella percezione del nostro paese, il desiderio di una nazione di sentirsi una fortezza sia passato da un iniziale “Perché?” a un più recente “Perché no?”. È stato facile passare da un desiderio di autosufficienza (politica, economica, militare e soprattutto culturale) a una posizione apertamente egoista. I partecipanti britannici hanno concordato su come, in un Paese che è stato di fatto sempre aperto all’immigrazione, anche se non sempre veramente accogliente, vi sia ormai un ambiente ostile nei confronti di chiunque non corrisponda all’idea standard di britannico. È stato affermato con forza come le chiese siano chiamate a opporsi a tutto ciò; e mantenere rapporti fraterni con i partner esteri è un primo, forte segnale in tale direzione. E’ giusto che i confini esistano, perché aiutano a comprendere chi siamo, ma devono essere luoghi d’incontro e di crescita reciproca, ponti di comunione e solidarietà e non barriere protette da muri.