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Lettera ad un figlio sul ’68 che non ho vissuto

Caro figlio,

l’altra sera abbiamo parlato del ‘68 ma, come sempre più spesso accade, eravamo di fretta: tu in quell’età meravigliosa nella quale ci si muove, si parla, si ascolta alla velocità della luce e gli amici che ti aspettano per uscire sono una calamita gigantesca puntata dritta agli organi vitali;  io in quell’età, altrettanto meravigliosa, nella quale le responsabilità che ho scelto rischiano di occuparmi anche il tempo bello e senza scopo della sera. Mi hai chiesto del ’68 e ti ho sparato l’affresco di un’epoca nella quale ragazzi della tua età o poco più, hanno assaltato il cielo e, mettendo in discussione tutto, sono entrati nella storia.

Ti ho parlato di Martin Luther King e della guerra in Vietnam, dei Beatles e della libertà di indossare la minigonna, delle scuole e delle fabbriche occupate, della pillola anticoncezionale e del divorzio, di Agape (proprio la stessa Agape nella quale sei ora, mentre scrivo) e della Fgei, del rapporto tra fede e politica. A ripensarci però non ti ho raccontato l’unica cosa importante: cioè il senso che per me, per la mia formazione, ha avuto e ha il ’68, anche se personalmente non l’ho vissuto.

Appartengo alla cosiddetta Generazione X, dei nati tra il 1960 e il 1980, e praticamente siamo i figli  e le figlie di quelli che hanno fatto il ‘68. Si perché prima ci sono stati i Baby Boomers – che hanno favorito di un periodo di crescita economica irripetibile e che hanno fatto il ’68 – e poi ci siamo noi – che ci siamo beccati la fine del boom economico e le strade disoccupate dai sogni. Quelli come me sono stati educati a partire dal mito del ’68, e con la certezza che per combattere diseguaglianze e ingiustizie, se ci si mette tutti insieme, prima o poi, ce la si fa: i partigiani  si erano messi insieme e avevano sconfitto il fascismo, i sessantottini si erano messi insieme e avevano cambiato la società, conquistando diritti sul lavoro e libertà nei comportamenti. Hai presente quando da bambino ti addormentavi ascoltando i grandi chiacchierare e ridere fino a tardi? Ecco. Io da bambino mi addormentavo ascoltando gli adulti cantare in cerchio, a casa o al Centro Ecumenico di Tramonti di Sopra, sia le canzoni dei partigiani che quelle del ‘68 : “O cara moglie”, “Morti di Reggio Emilia”, “La locomotiva”, “Corro a gettare il mio peso”. E come fai, ascoltando quelle storie e canzoni, e se per di più ti dicono che alla fine anche Gesù era un rivoluzionario, a non pensare che il mondo sia qualcosa di dolorosissimo e pieno di ingiustizia, ma al contempo migliorabile grazie alla protesta, alla resistenza o alla rivolta?

A ripensarci, quando siamo diventati grandi, è stato un po’ faticoso accorgersi che le cose non stanno sempre così e che la democrazia è un affare difficilissimo, mai risolto una volta per tutte e che anche la più vittoriosa delle proteste non solo non sarà mai l’ultima ma bisogna pure fare occhio a che non produca storture ancora peggiori. Nei primi anni ’90 quelli della mia generazione si sono trovati nel movimento no global e hanno vissuto le giornate di Genova: ti ricordi che ti ho parlato di Carlo Giuliani e di come ci hanno saputo spaventare e dividere? Tutto ormai era cambiato e noi non avremmo fatto il nostro ’68. In più, la crisi economica, che ad un certo punto sarebbe divampata, si sarebbe portata dietro i linguaggi e le forme della partecipazione tipiche della sinistra del ‘900: è da lì che salta fuori la rabbia che oggi molti sfruttano.

Però, qui volevo arrivare e con questo ti saluto, “il ’68 che non ho vissuto” mi ha insegnato che quanto più i tempi sono bui e difficili, tanto più siamo chiamati a partecipare con fantasia: le sorti del proprio quartiere, territorio, città e magari anche del proprio Paese (il mio è l’Europa) non possono essere lasciate sempre ad altri e la partecipazione la si deve fare in prima persona, insieme ad altri e reinventandosi di volta in volta, di generazione in generazione, il linguaggio e le forme della democrazia.

Dicono che le chiese, i partiti, le associazioni siano finite. Io non ne sono per niente sicuro e mi sa che oggi siamo proprio qui e da qui dobbiamo ripartire.