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La lezione di Nelson Mandela

Il 18 luglio di cent’anni fa in un minuscolo villaggio del Sudafrica nasceva Nelson Mandela, una delle personalità chiave del Novecento e di un tempo forse sovraccarico di ideologie, ma attraversato dalla volontà di capire, di farsi un giudizio proprio sulle persone e sui fatti, anche quelli che accadevano più lontani da noi.

Tra i grandi meriti di Mandela vi è quello di essersi sottratto a un uso ideologico della sua storia e della causa alla quale ha dedicato la vita. Quando era ancora in carcere – ricordiamo che nel 1962 fu arrestato e condannato all’ergastolo per reati di azione armata non connessi a fatti di sangue – immaginò un programma politico che superava i confini dell’ortodossia marxista e faceva propri politiche e principi liberaldemocratici. Aderì all’African National Congress – la principale forza di opposizione al regime – quando l’organizzazione perseguiva ancora una strategia nonviolenta, e fu solo dopo la strage di 69 attivisti nel 1960 che lui e gli altri leader dell’organizzazione decisero di abbandonare la filosofia e i metodi gandhiani. Seguì una stagione terribile, in cui il potere bianco si macchiò di centinaia di attentati contro personalità dell’opposizione e di una delle stragi più gravi compiute contro civili inermi: accadde nella township a Soweto il 16 giugno del 1976, quando le forze militari sudafricane uccisero almeno 200 manifestanti. La foto di una coppia di genitori che reggevano in braccio il cadavere del figlio di pochi anni fece il giro del mondo e suscitò un’eccezionale ondata di mobilitazione contro l’apartheid sudafricano. Ma il regime era ancora forte e rifiutò ogni negoziato.

La svolta avvenne soltanto nel 1990, quando Mandela fu rimesso in libertà. Non fu un atto di benevolenza del regime ma la sola via d’uscita a una vera e propria crisi nazionale: il Sud Africa era sempre più isolato politicamente; tra banchieri e industriali aumentavano i dubbi sulla sostenibilità dell’isolazionismo a cui l’apartheid costringeva un paese che aveva tutti i numeri per diventare la «locomotiva» dello sviluppo africano; la fine della «guerra fredda» produceva i suoi effetti anche fuori dal teatro atlantico. Ma a tutte queste ragioni se ne era aggiunta un’altra che a nostro avviso ebbe un ruolo centrale nel crollo del sistema razzista: il processo interno alla Chiesa riformata olandese che, dopo aver sostenuto e difeso l’apartheid, a partire dal 1986 aveva avviato un processo di riflessione critica sulle sue scelte sino a pronunciare una solenne confessione di peccato nel 1989.

Mandela si era formato nelle scuole metodiste; nella sua prigionia era stato accompagnato in carcere da un cappellano metodista; benché incarcerato, era ben consapevole del ruolo del Consiglio ecumenico delle Chiese nelle campagne di boicottaggio contro il razzismo sudafricano e nel sostegno all’opposizione. Insomma aveva tutti gli elementi per comprendere la potenzialità di quel cambiamento teologico che toglieva ogni legittimità morale a un regime ormai in declino. E non è un caso che le chiese – compresa quelle che avevano legittimato l’apartheid – ebbero un ruolo di primo piano nella fase di transizione alla democrazia, fino a strutturare eticamente e giuridicamente quel processo giuridico denominato «Verità e riconciliazione» che, dopo decenni di odii e violenze, ha permesso al nuovo Sud Africa di costruirsi su basi di uguaglianza e democrazia. Non tutto è risolto e il Sud Africa di oggi è una democrazia assai più fragile di quella immaginata da Mandela. Ma proprio l’etica della democrazia e di una società giusta composta da cittadini liberi e uguali è la più grande lezione etica e civile che questo mito del Novecento consegna alla nostra confusa e sofferta post-modernità.