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Gesù non è stato il primo socialista

Nuovo articolo della serie dedicata al 1968 nelle chiese evangeliche italiane. Dopo Marco Rostan sulla stagione dei manifesti e dei volantini, dopo il direttore del Servizio Cristiano di Riesi Gianluca Fiusco sul ’68 in Sicilia, dopo Renato Maiocchi su Agape, dopo Aldo Comba e il ricordo del Sinodo del 1968, dopo i ricordi del pastore Giorgio Bouchard sull’esperienza del Centro Lombardini di Cinisello Balsamo, dopo il presidente dell’Ucebi, l’Unione cristiana evangelica battista in Italia, Giovanni Arcidiacono,  con la memoria ai fermenti internazionali e nazionali di quel periodo, dopo Gianna Urizio, che ci ha ricordato che il 1968 fu prima di tutto un fenomeno globale, dopo la panoramica sulle riviste, sulle pubblicazioni e sulle trasmissioni radiofoniche evangeliche di quel tempo, oggi è la volta di una riflessione di Francesca Spano contenuta nel numero 32 di Gioventù Evangelica. Buona lettura. 

Il 2° Congresso dei «Cristiani per il socialismo» offrì l’occasione a Gioventù evangelica di pubblicare una serie di riflessioni (nel n. 32 – febbraio 1975) che facevano il punto sulla dialettica fra cristiani e marxisti, fra coerenza evangelica e militanza politica. Fra gli interventi pubblicati, quello di Francesca Spano (1950-2007), al di là dell’occasione contingente, conteneva nella sua parte finale una serie di considerazioni, attualissime, sulla necessità di tenere distinti i due piani di impegno. Ci sembra dunque che questo testo sia utile per capire lo sguardo che una generazione di credenti protestanti ebbero nei confronti del lavoro politico sviluppatosi a seguito del 1968. Per chi è venuto e viene dopo, invece, si tratta di un’indicazione metodologica, biblicamente fondata, da tenere presente nell’incertezza concettuale di oggi.

Contestando un’illusoria assimilazione dei «proletari di Marx» con gli «umili» di Luca e una fuorviante lettura del testo di Isaia: «Io sono con quello che è contrito e umile di spirito» (57, 15), l’autrice, richiamandosi invece all’affermazione di Paolo: «non esiste alcun giusto, neppure uno» (Romani 3-10), entra nel merito della speranza che viene dalla fede in rapporto alle lotte sociali e politiche: «La giustizia che noi predichiamo agli uomini trova il suo fondamento nella croce di Gesù di Nazareth e non nella sofferenza degli uomini: concezione questa bieca e reazionaria per cui il dolore purifica l’uomo e lo rende capace di amare. Il dolore e la morte abbrutiscono l’uomo: noi dobbiamo lottare perché l’uomo non soffra per colpa di altri uomini e Gesù è morto perché vincesse la vita».

E ancora: «Noi non abbiamo conosciuto il Signore, né lo conosceremo meglio facendo fino in fondo il nostro dovere di rivoluzionari; noi sappiamo solo, con Paolo, che dal Signore siamo stati conosciuti (Galati 4, 9), e sappiamo, con i riformatori, che questo è avvenuto per sola grazia, senza alcun merito da parte nostra. Vinciamo una buona volta questo spirito così borghese dello scambio (noi facciamo la rivoluzione e il Signore ci è vicino) e diciamo con franchezza ai compagni e ai fratelli che ci chiedono che senso ha per noi il definirci protestanti: il senso di questo sta, per noi, nel non intrattenere con il Signore rapporti di scambio, nel non aspettarci niente in cambio di una “buona opera” rivoluzionaria: la speranza di salvezza per gli uomini, che portiamo con noi, non si fonda sulla nostra coerenza nella solidarietà con chi soffre (coerenza che spesso non c’è stata e forse ancora non ci sarà) ma sul fatto che un giorno un uomo si è fatto ammazzare e noi oggi, per fede, dichiariamo che quell’uomo non era affatto il primo socialista della storia, ma il Signore della storia».