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I prossimi trent’anni…o giù di lì

Chi pensasse che l’Italia e l’Europa abbiano diversi problemi cui applicarsi avrebbe certo buone e note ragioni da far valere.

Il progetto europeo è in una fase di stallo politico e istituzionale ormai conclamato, per ragioni antiche e per cause recenti.

Quelle antiche afferiscono alla incompiutezza di un consolidamento istituzionale necessario ma sempre rinviato: l’incapacità – per essere stringati – di dotarsi di un modello di governance compatibile con l’ambizione di una moneta unica.

Le cause recenti sono invece l’insorgenza di pulsioni identitarie e sovraniste in diversi Paesi, compresa la solida Germania, che utilizzano come innesco polemico il fenomeno immigratorio e danno la stura a istanze rivendicazioniste di ogni sorta.

Tra le ragioni antiche e le cause recenti vi è indubbiamente un nesso. Brexit ne è stata a suo modo una eloquente esemplificazione.      

Venendo al nostro Paese il discorso è diverso, ma non troppo.

Anche da noi infatti si discute da alcuni decenni della necessità di aggiornare l’assetto istituzionale. La cosiddetta seconda Repubblica ha vagheggiato il transito verso improbabili assetti federalisti dello Stato, salvo ripiegare poi su una devolution pasticciata che ha rilanciato il regionalismo ma in maniera sbilenca. E anche il recente progetto di riforma Istituzionale attraverso la necessaria modifica costituzionale è stato com’è noto impietosamente bocciato dal referendum del 4 dicembre 2016. L’unico modello di riforma duraturo e fruttuoso si è rivelato essere quello dei governi cittadini con l’elezione diretta del Sindaco e con un corrispondente incremento di responsabilità e prerogative, quasi a confermare la persistente natura municipale della nostra penisola.    

Molti problemi rimangono dunque sul tappeto.

I temi di politica economica e sociale sono anch’essi formidabilmente tutti davanti a noi.

Una brave e davvero sommaria rassegna non potrebbe non annoverare perlomeno: l’alto debito pubblico da stabilizzare, la bassa crescita economica che, complice gli anni di recessione ormai alle spalle, genera cinque milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà secondo quanto certificato dall’ultimo rapporto dell’Istat;  l’alto tasso di disoccupazione giovanile, una lenta crescita dei consumi interni, un atavico problema di  bassa produttività del lavoro, il sud in notevole ritardo, un sistema di infrastrutture insufficiente e bisognoso di urgente manutenzione, un tasso di dispersione scolastica ancora alto,  una piattaforma dei diritti di cittadinanza ancora ferma agli anni ’90 e sempre meno rispondente ad un tessuto sociale vigorosamente plurale, come la recente staffetta delle atlete italiane salite sul podio dei Giochi del mediterraneo si è incaricata di dimostrare.

Ma di questi problemi, italiani ed europei, sui giornali e sui media troverete poco riscontro.

I grandi temi che catalizzano da ultimo l’attenzione generale e sui quali si affannano stormi di sondaggisti sono l’immigrazione e la strenua lotta contro le élite, che passa anche per  “l’abolizione dei vitalizi” agli ex parlamentari.

I dati non sembrano univocamente suffragare l’assoluta urgenza di questa agenda politica: ad esempio sul fronte dell’immigrazione non si può far finta di non vedere che malgrado la notevole complessità del fenomeno, i flussi in arrivo si sono ridotti nell’ultimo anno dell’82%. Si potrebbe inoltre implementare il modello coraggiosamente sperimentato con i corridoi umanitari nato dall’impegno della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) in sinergia con la Tavola  Valdese, la Comunità di Sant’Egidio e il Governo Italiano, che combina un approccio solidale e selettivo tanto efficace da essere stato replicato anche in altri Paesi.

Si potrebbe altresì osservare che la giusta e opportuna critica alle élite quando colpevoli non ha nulla a che vedere con il trionfo del qualunquismo e l’elogio dei parvenus.

Si potrebbe anche far notare con voce sommessa e atteggiamento pensoso, che i reati sono in calo del 10% solo nell’ultimo anno e che il regime dei vitalizi per i parlamentari era già stato superato nel 2013.

Ma queste osservazioni non paiono convincenti e i fatti soccombono al cospetto delle sensazioni.   

L’attuale compagine governativa capitanata dall’indomito Ministro dell’Interno, lancia ogni giorno i suoi strali infuocati contro migranti e navi ONG colpevoli di minacciare la nostra sicurezza e di attentare alla sovranità sui nostri confini.

Il popolo, che di sovranità se ne intende, sembra gradire, e in percentuali elevate assiste plaudente a questa retorica del tempo nuovo: un tempo muscolare e direttivo che, secondo recenti esternazioni, dovrebbe durare trent’anni. Speravamo qualcosina in meno, ma sempre meglio che a tempo indeterminato.  

Non diversamente, beninteso, agiscono a dire il vero i ministri dell’Interno e i capi di Stato di altri Paesi come la Germania dell’arcigno ministro bavarese Horst Seehofer, l’ Austria e l’intero gruppo di Visegrad che di migranti ne ha visti per la verità pochini.  

Tutto qui dunque quello che hanno da offrire le moderne democrazie occidentali ai loro popoli come ricostituente identitario?

Tutto qui quello che l’Unione Europea sa dire in tema di rispetto dei diritti umani e di visione prospettica per il futuro?

È  sulla paura del diverso e sulla difesa dei sacri confini che vogliamo spendere le nostre migliori energie?

Il paradigma sovranista non finirà nuovamente per metterci gli uni contro gli altri – come già sta accadendo – e creare scenari già vissuti in epoche non troppo remote?

Il popolo dei credenti, per fluido e secolarizzato che sia, intende emozionarsi al suono di questi inni patriottici intonati a tutto volume con inusitata arroganza?

Le chiese cristiane del continente europeo lasceranno che i rosari e le preghiere vengano recitate sulle linee di confine, come accaduto nella cristianissima Polonia, in segno di avvertimento ai naviganti?

La recente celebrazione ecumenica occasionata dai settant’anni del Consiglio Ecumenico delle Chiese ha registrato certamente accenti e parole importanti sul nesso tra pace e diritti umani, ma in che modo le singole chiese che ne fanno parte sono anche voci critiche di promozione dei diritti umani nelle rispettive aree geografiche di provenienza?

Non so esattamente cosa intendesse dire Leo Longanesi quando asseriva, non privo della consueta ironia, che gli italiani sono tutti estremisti per prudenza.

Ma per una volta potremmo forse sospettare che, contrariamente all’adagio popolare, la prudenza stia diventando davvero troppa.

Chissà che non ci sia ancora modo di guardare indietro alla nostra storia di migranti, non sempre di buon partito, e di infamati e calunniati dal pregiudizio altrui, e tornare a ragionare sui problemi assumendo la sfida della complessità del nostro tempo come unica modalità promettente per costruire un futuro migliore. Facciamo ancora in tempo o dobbiamo attendere i prossimi trent’anni?