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Ce la faremo?

«Ce la faremo» (Wir schaffen das): l’espressione utilizzata da Angela Merkel in un celebre intervento del 31 agosto 2015, di fronte a un’ondata di profughi provenienti dall’Est, avrebbe potuto diventare una frase storica, in un XXI secolo non precisamente ricco di parole in grado di appassionare. Quella frase aveva anche una matrice spirituale, molto implicita, ma non per questo sbiadita. L’ha riconosciuta bene, criticandola sarcasticamente, uno dei più importanti quotidiani tedeschi, che commentava più o meno così: «Si può far uscire una persona dalla casa pastorale [Merkel è figlia di un pastore della Ddr], ma non la casa pastorale dal cuore di quella persona». Ammetto di essermi emozionato leggendo quel commento: esso voleva esprimere l’accusa spesso indicata con il becero termine «buonismo», ma intanto constatava una permanente influenza delle parole e della Parola un tempo udite nella casa pastorale. «Speriamo che sia vero», ho pensato. Non lo era del tutto, oggi lo sappiamo. La figlia del pastore ha dovuto pagare dazio alle esigenze elettorali, cercando il tal modo di evitare che nel suo paese accadesse ciò che negli ultimi anni è accaduto altrove: credo peraltro che l’abbia fatto in modo un po’ meno canagliesco di altri.

Diversi fascismi anche nostrani dicono di volere un’ «Europa bianca e cristiana»: in realtà, una delle ragioni del successo di simili volgarità è che non solo l’Europa non è affatto cristiana (per alcuni versi, non è nemmeno chiaro che cosa ciò potrebbe voler dire), ma la parola dell’Evangelo, in questo continente, o è del tutto aliena, incomprensibile, o è appunto mostruosamente stravolta nella più squallida ideologia identitaria (un po’ di «religione», cattolica o protestante, per non parlare dell’ortodossia, da aggiungere al culto del Sangue e della Terra). I politici che predicano la fine della «pacchia» (consistente non raramente nel marcire in un campo profughi, qualora si riesca a non annegare nel Mediterraneo) scelgono le parole che piacciono all’opinione pubblica. Il peggio del peggio prodotto dalla politica europea (e da Trump, evidentemente) costituisce la risposta a una chiarissima richiesta. Come sempre nei momenti oscuri della storia, essa è espressa dal «Popolo» (appunto: Sangue, Terra e Popolo), che ora ha anche un «Avvocato» (nota a margine: speriamo che l’Avvocato del Popolo non eserciti in un Tribunale del Popolo: manca giusto quello).

E le chiese? Le informazioni che possiedo sull’Ortodossia sono parziali: diciamo che ascoltare Kirill, e soprattutto vederlo con i suoi amici, non mi rassicura, ma la questione è più complessa. Per quanto riguarda i vertici cattolici e protestanti, stanno dalla parte giusta e anche per questo sono mal tollerati e, in sostanza, marginalizzati nel dibattito europeo, papa compreso. Si tratta, però, della marginalità di Cristo, che non va semplicemente sopportata, bensì vissuta con letizia.

Mi chiedo, invece, se tutti coloro che (ancora) frequentano le chiese si collochino dalla stessa parte; mi chiedo se l’annuncio della parola di Gesù nel vivo della situazione odierna non sia a volte considerato pericoloso, tale da allontanare alcuni dei non molti che ancora ci danno retta. Il malinconico scenario di quest’Europa straricca e ipocrita esprime anche il fallimento della predicazione cristiana. Si tratta del fallimento dovuto alla nostra insipienza, oppure del mancato ascolto determinato dalla «durezza di cuore» della quale parla la Scrittura? Non posso saperlo, naturalmente, e non è detto che le due possibilità siano alternative. Certo la flebile eco culturale della Parola un tempo custodita nella «casa pastorale» (i «valori» cristiani, la «mentalità» protestante, l’«identità» confessionale, la «storia» della nostra «Terra») è più mito che realtà e in ogni caso non è ciò di cui le chiese sono responsabili. Esse, invece, hanno ricevuto la Parola stessa, non in primo luogo per propagandarla, ma per ascoltarla. C’è un ascolto che cambia la storia e solo esso diviene testimonianza.