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Alta tensione tra il Libano e Unhcr

Quando a giugno l’aria calda che arriva dal deserto siriano e l’umidità del Mediterraneo cominciano a sfidarsi, l’aria a Beirut si fa soffocante e la cappa di smog creata dai gas di scarico e dai generatori rende tutto grigio sotto il cielo azzurro e senza nuvole che ha visto passare Fenici, Romani, Bizantini e Ottomani.

Dello stesso colore, un grigio che tende al nero, dev’essere in questi giorni l’umore negli uffici di Unhcr in Libano. Lunedì 11 giugno, infatti, i lavoratori dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) hanno avuto la conferma di ciò che temevano: i loro visti non verranno rinnovati dal governo libanese.

Per capire come si è arrivati a questo punto è necessario fare un passo indietro: in Libano, un Paese grande quanto l’Abruzzo, oggi vivono quattro milioni e mezzo di libanesi, a cui vanno aggiunti 500.000 profughi palestinesi, figli delle guerre che dal 1948 a oggi li hanno opposti allo Stato di Israele, e almeno un milione e duecentomila rifugiati siriani, tutti arrivati in Libano a causa della guerra in Siria. Il numero di profughi siriani, in realtà, è necessariamente sottostimato, perché si tratta di un numero ufficiale ma fermo al 2015, anno in cui si è fermata la registrazione di nuovi ingressi nel Paese, a fronte di un flusso che non si è azzerato. I profughi in questo Paese, quindi, sono in tutto almeno due milioni, quasi un terzo dell’intera popolazione.

A più riprese negli ultimi mesi, il governo libanese guidato dal primo Ministro Saad Hariri ha chiesto agli organismi internazionali che cominciasse un percorso per il ritorno dei cittadini siriani nelle aree della Siria considerate sicure, finora senza risultati, anche a causa dell’assenza di un vero e proprio percorso verso un’intesa tra Paesi e realtà sovranazionali.

Lo scorso 5 giugno il ministero libanese degli Affari Esteri aveva chiesto a Unhcr di preparare e presentare, entro due settimane, un piano d’azione su questo tema. Diversi funzionari libanesi, tra cui il Presidente della Repubblica, Michel Aoun, e il ministro degli Esteri, Gebran Bassil, avevano chiesto infatti di organizzare il ritorno in alcune aree sicure in Siria almeno di una parte dei rifugiati siriani presenti nel Paese, ma la comunità internazionale ha affermato di considerare prematuro questo ritorno, in assenza di una soluzione politica al conflitto siriano. La richiesta del governo libanese, così come la risposta di Unhcr, hanno avuto un rafforzamento dopo una recente visita compiuta da una delegazione del ministero degli Affari Esteri presso il villaggio di confine di Aarsal, nella Valle della Bekaa, da cui è previsto il rimpatrio in Siria di circa 3.000 rifugiati in occasione dell’īd al-fiṭr, la festa per la fine del mese di Ramadan, giovedì 14 giugno.

Il ministro degli Esteri, il cristiano maronita Bassim, afferma infatti che, secondo il rapporto, Unhcr «non incoraggia gli sfollati a tornare a casa, e li intimidisce anche ponendo loro domande che fanno temere di tornare nel loro paese, tra cui menzionare il servizio militare obbligatorio, sottolineare i problemi di sicurezza, mettere in dubbio lo stato delle abitazioni, la cessazione degli aiuti delle Nazioni Unite e altre questioni dissuasive».

Dopo il parere negativo di Unhcr, lunedì 11 giugno il ministero libanese degli Affari Esteri ha quindi comunicato a Unhcr che le richieste di permesso di soggiorno depositate dai lavoratori dell’agenzia Onu saranno bloccate. L’approccio delle autorità libanesi riguarda sia le nuove domande di residenza, sia il rinnovo dei permessi già concessi al direttore di Unhcr in Libano, Mireille Girard, e al suo gruppo di lavoro.

Al netto della mossa del ministro degli Esteri, che ha agito secondo prerogative ma che ha generato uno scontro interno al governo, soprattutto con il primo Ministro Hariri, anche l’atteggiamento di Unhcr non manca di destare alcune perplessità, tanto tra i libanesi quanto nel mondo della cooperazione internazionale. Secondo una fonte delle Nazioni Unite presente a Beirut, infatti, se l’agenzia Onu per i Rifugiati, anziché chiudere del tutto le porte, avesse invece trattato con Bassil, magari chiedendogli di portare avanti un lavoro politico di trattativa per un accordo internazionale sul rientro dei profughi nel Paese d’origine, allora forse si sarebbe innestata una dialettica costruttiva, non una chiusura per contrasto. Come andrà a finire? Difficile dirlo, anche perché Bassil ha tutto tranne che un pieno mandato, visto che dopo le ultime elezioni, che hanno marcato una netta crescita di Amal ed Hezbollah, che fanno parte dell’Alleanza 8 marzo insieme allo stesso Bassil e al presidente Michel Aoun, si dovrà procedere alla formazione di un nuovo governo, e l’attuale ministro degli Esteri con ogni probabilità non verrà confermato.

Ma se da un lato si parla apertamente di ritorno dei siriani rifugiati in Libano, la tendenza in Siria è tutt’altro che rassicurante: secondo un rapporto pubblicato lunedì 11 giugno dalle Nazioni unite, oltre 920.000 persone sono state sfollate internamente nei primi 4 mesi del 2018, una cifra record dall’inizio del conflitto sette anni fa. Un totale di 6,2 milioni di siriani hanno lasciato le loro case e le loro cose nel paese, e circa 5,6 milioni sono ancora rifugiati nei paesi vicini, secondo le cifre delle Nazioni Unite. Un quadro che parla ancora di emergenza.

Foto di Marco Magnano