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Raqqa, una città annichilita

È trascorso un anno dall’inizio dell’operazione per la liberazione di Raqqa dal controllo del gruppo Stato islamico. Dal 6 giugno al 12 ottobre del 2017, infatti, la coalizione composta dalle forze di terra curde delle Sdf e dall’aviazione statunitense avanzò nella città che il Daesh aveva eletto a propria capitale. Poco prima dell’inizio di quella campagna militare, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti ed ex generale dei Marines, James Mattis, aveva annunciato che la nuova strategia del suo Paese nei confronti del Daesh sarebbe stata «l’annichilimento».

Nel suo rapporto a dodici mesi dall’avvio di quelle operazioni, dal titolo Guerra di annichilimento: devastanti perdite di vite umane a Raqqa, Siria, Amnesty International ha ripreso questa definizione per elaborare un rapporto nel quale si sono raccolte le testimonianze a proposito di migliaia di civili uccisi o feriti e sulla distruzione di abitazioni, edifici pubblici e privati e infrastrutture rase al suolo o rese inutilizzabili.

Secondo la testimonianza del sergente maggiore dell’esercito John Wayne Troxell, «in cinque mesi sono stati sparati 30.000 colpi d’artiglieria su obiettivi dell’Isis. Sono stati lanciati più attacchi a Raqqa, in Siria, che ogni altro battaglione dei Marines o dell’esercito dalla fine della guerra del Vietnam». Il problema, spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, è che «come accaduto anche a Mosul, la distinzione tra obiettivi civili e militari è stata praticamente nulla. Nonostante sapessero che lo Stato islamico usava scudi umani, si camuffasse all’interno delle aree residenziali, avesse minato tutte le vie di fuga intrappolando la popolazione, non c’è stata precauzione sufficiente e adeguata da parte della coalizione a guida statunitense nel risparmiare vittime civili. È stato un massacro, nient’altro. È come se venisse meno la distinzione tra civili e altro, per cui una popolazione che è in trappola da parte di un invasore diventa complice dell’invasore e quindi subisce delle conseguenze furibonde».

Del resto, era stato lo stesso Mattis aveva riconosciuto prima dell’operazione che «le vittime civili sono una cosa della vita in questo genere di situazione», aggiungendo poi che «noi siamo perfetti, ma siamo i buoni. Quindi facciamo ciò che possiamo».

Per contro, il comandante della coalizione, il tenente generale Stephen Townsend, ha dichiarato che «non c’è mai stata una campagna aerea più precisa nella storia dei conflitti armati». È un’affermazione che non può non riportare alla mente le “bombe intelligenti” usate nell’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, armi che si dimostrarono in seguito non così precise da evitare di causare vittime civili. «Al di là del fatto – afferma Noury – che le bombe siano o meno intelligenti, dev’essere intelligente la scelta dell’obiettivo, dopodiché anche la bomba più intelligente nei confronti di un obiettivo sbagliato crea danni».

Durante la stesura del rapporto, Amnesty afferma di aver chiesto ai vertici della coalizione informazioni sulla scelta degli obiettivi, sulle armi usate e sulle informazioni utilizzate per decidere gli obiettivi, ma di non aver mai ottenuto risposta.

Il documento, costruito attraverso visite a 42 siti teatro dei bombardamenti della coalizione e interviste a 112 abitanti sopravvissuti ai bombardamenti in cui hanno perso i loro cari, solleva quindi dubbi sulle dichiarazioni della Coalizione, soprattutto a proposito dell’affermazione per cui le sue forze hanno fatto quanto necessario per ridurre al minimo le perdite civili. Inoltre, si raccontano nel dettaglio le storie di quattro famiglie, «sterminate – conclude Riccardo Noury – con complessivamente oltre un centinaio di morti tra famigliari stretti e vicinato. quindi è evidente che si è bombardato le città come a Mosul e il risultato è stato una catastrofe dei diritti umani vera e propria acuita dal fatto che tutt’oggi c’è la più completa impunità nei confronti di chi ha compiuto gli attacchi, di chi ha deciso dove compiere gli attacchi».

Intanto, si avvicina il secondo anniversario della liberazione di Manbij, la città nel nord della Siria che fino al 2016 era sotto il controllo del gruppo Stato Islamico e che poi fu liberata da un insieme di forze che includeva anche i curdi siriani delle Ypg. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu, e il segretario di Stato degli Stati Uniti, Mike Pompeo, hanno raggiunto l’accordo definitivo sul passaggio di consegne nella città, un accordo basato su un solo punto: la rimozione delle Fds, la federazione multietnica e multiconfessionale a guida curda, e la loro sostituzione con forze militari turche e statunitensi. Per Ankara, questo accordo rappresenta un nuovo passo verso la costituzione della “zona cuscinetto” tra Siria e Turchia, considerata fondamentale dal presidente Erdogan sin dallo scoppio della guerra nel 2011. Inoltre, con questa intesa si chiude quindi una fase di tensione che nel 2017 aveva portato Stati Uniti e Turchia vicini allo scontro armato territoriale, mandando in crisi uno dei capisaldi della Nato, di cui entrambi sono importanti membri, ovvero la non offesa reciproca.