95317034_1266409c52_o

Migrazioni, la prima sfida per il nuovo governo

I primi giorni di attività del nuovo governo, guidato da Giuseppe Conte e sostenuto da una maggioranza composta da Movimento 5 Stelle e Lega, sono stati caratterizzati dalle molte dichiarazioni del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Nei suoi primi interventi a proposito di migrazioni, il segretario federale della Lega ha mantenuto il lessico e l’approccio che aveva caratterizzato la campagna elettorale: sabato 2 giugno, durante un comizio a Treviso, ha annunciato che per i migranti «è finita la pacchia» e ha promesso di rimpatriare 500.000 irregolari, quindi ha assicurato che taglierà i costi dell’accoglienza e ha definito le Organizzazioni non governative che presidiano il Mediterraneo «vicescafisti», ovvero collaboratori dei trafficanti di esseri umani. Il giorno dopo, recandosi a Pozzallo per un evento elettorale, Salvini ha poi promesso che la Sicilia non sarà più «il campo profughi d’Europa»; infine ha annunciato che l’Italia si opporrà alla riforma del Regolamento di Dublino, in discussione in queste settimane in Consiglio europeo.

Tra i temi su cui si sta discutendo a proposito di migrazioni, la questione relativa al Regolamento di Dublino è sicuramente la più delicata. Oggi i ministri degli Interni dei Paesi dell’Unione europea si riuniscono per discutere proprio di questa riforma, già approvata nel novembre del 2017 dal Parlamento europeo e sostenuta dai parlamentari italiani perché introduce un principio di solidarietà tra i diversi paesi europei. Salvini, che non parteciperà alla riunione, ha già preannunciato che l’Italia voterà contro la riforma. «Non può più essere – ha dichiarato Salvini – solo un problema italiano quello degli sbarchi e dell’accoglienza di centinaia di migliaia di non profughi». Secondo Elly Schlein, l’europarlamentare di Possibile (gruppo dei Socialisti e Democratici) che è stata relatrice della riforma del Regolamento di Dublino, «Salvini fa molta confusione. Se avesse qualche reale competenza sul tema dell’immigrazione saprebbe che l’Italia è il paese più interessato alla riforma del Regolamento di Dublino, che nella formulazione attuale lascia, invece, le maggiori responsabilità agli stati di frontiera come il nostro».

Gianfranco Schiavone, giurista e collaboratore dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, spiega che «in questo momento sul tavolo c’è una proposta di riforma della Commissione europea che è stata radicalmente rivista dal Parlamento europeo nel novembre 2017, quindi abbiamo un testo del Parlamento che deve andare al confronto con il Consiglio per capire se c’è un’intesa su quel testo o se in realtà no. In tal caso il procedimento legislativo si dovrà rimettere in moto». Il Governo italiano sarà dunque chiamato a esprimersi su un testo che prevede, tra i vari punti, un meccanismo di quote obbligatorie per tutti i Paesi dell’Unione che prescinde dal criterio della competenza legata al Paese di primo ingresso del richiedente asilo, ma la riforma attualmente in discussione, proposta dalla Bulgaria come presidente di turno del Consiglio dell’Unione europea, è molto diversa da quella approvata a novembre dal Parlamento europeo. «La bozza in circolazione al Consiglio – spiega Elly Schlein – è pessima, come denunciamo da mesi, ma per cambiarla bisogna sedersi al tavolo. Se l’Italia diserta il negoziato al Consiglio, gli altri Stati membri possono andare avanti anche a maggioranza qualificata». Secondo l’attuale ministro dell’Interno la riforma del Regolamento di Dublino renderebbe ancora più onerosa la situazione italiana in merito all’esame delle domande d’asilo e all’accoglienza degli aventi diritto.

La versione attualmente in vigore del regolamento di Dublino è la terza ed è stata sottoscritta nel 2013. Tuttavia il regolamento sulla gestione dei meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo non è stato introdotto con Dublino III, ma con la versione precedente, ratificata dal nostro Paese nel 2003, quando al governo in Italia c’era proprio la Lega Nord, insieme a Forza Italia, Alleanza Nazionale e Udc. All’epoca, un anno dopo l’approvazione della «legge Bossi-Fini» sull’immigrazione, la Lega non aveva opposto obiezioni a quella parte del trattato, l’articolo 13, rimasto invariato fino a oggi.

Con il voto di novembre, il Parlamento Europeo aveva proposto di mettere fine a questo principio. Come aveva spiegato la relatrice dell’Europarlamento, la liberale svedese Cecilia Wickström, il nuovo sistema che sarà proposto ai ministri degli interni degli stati membri prevede il ricollocamento automatico di tutti i richiedenti asilo verso gli stati membri in base ad un sistema di quote calcolato sul PIL del paese di destinazione. Le quote saranno permanenti, ovvero non ci sarà bisogno di una situazione di crisi, come quella degli scorsi anni, per avviare il programma di “redistribuzione” delle domande di accoglienza. Ma Salvini ha detto di volerla bloccare, assumendo le stesse posizioni del premier ungherese Viktor Orbán e del cosiddetto gruppo di Visegrád, che mette insieme Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia su un fronte euroscettico con posizioni molto dure sul tema delle migrazioni.

Tuttavia, è difficile capire quale sia il margine d’azione del nuovo governo: già nel suo primo colloquio con i funzionari del ministero degli Interni, sabato pomeriggio, il nuovo titolare del Viminale si è reso conto di alcuni problemi, legati al costo dei rimpatri e all’assenza di accordi bilaterali con la maggior parte dei Paesi di provenienza dei migranti, così come dell’impossibilità di chiudere i porti e di revocare l’accoglienza ai richiedenti asilo. Allo stesso modo, sarà interessante vedere quali saranno le possibilità di realizzare una delle promesse della campagna elettorale, quella di aprire più centri permanenti per il rimpatrio: già nel 2017, in seguito al decreto Minniti-Orlando, il governo aveva cercato di aprire centri in tutto il territorio italiano, ma regioni e amministrazioni locali avevano interrotto questo percorso. «Questo tentativo di dare maggiore spessore ai centri per i rimpatri – spiega Gianfranco Schiavone – negli ultimi 20 anni ha portato solo a drammatici fallimenti. Non si comprende quale sia il significato di questa azione, visto che la maggior parte delle persone che sbarcano presentano domanda di protezione internazionale e quindi non sono trattenuti nei centri per il rimpatrio. Si vuole forse di nuovo fare quello che si tentò di attuare, fallendo clamorosamente, all’inizio degli anni Duemila, cioè i cosiddetti centri polivalenti, enormi centri misti dove tenere da un lato i richiedenti asilo e dall’altra in aree separate ma contigue i centri per gli espellendi?».