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La Bibbia e lo stupore, risorse per vivere in questo mondo

Uno dei primi telegiornali di cui ho ricordo, a parte quelli relativi alle missioni «Apollo» a all’allunaggio: nel 1971 muore il trombettista e cantante Louis Armstrong («Satchmo»), simbolo della musica neroamericana, e Carlo Mazzarella, grande inviato Rai, dopo il servizio dedicato alla notizia aveva ripreso l’argomento in studio, raccontando di una sua visita, anni prima, a casa Armstrong. Descrisse l’amabilità del musicista e della moglie, la sua proverbiale semplicità, ma anche lo stupore di lui, quando vide che il giornalista ospite stava iniziando a mangiare senza prima ringraziare il Signore. Ricordo benissimo come Mazzarella fu colpito dalla spontaneità di questo stupore, come disse di essersi un po’ vergognato, di fronte alla semplicità di una fede che non viveva astrattamente, ma nella pratica di ogni giorno. Ecco, questa consapevolezza della propria identità di credente, non invasiva, ma assolutamente robusta; questo retaggio, che è anche culturale ma in primo luogo fa parte dell’interiorità della persona, permea gli scritti letterari (ma anche biblici, teologici, politici) di una grandissima scrittrice contemporanea, Marilynne Robinson*, più volte transitata in Italia .

La scrittrice, che è anche docente di scrittura nello Iowa, ma ha ambientato in una cittadina immaginaria dello Idaho, Gilead (la biblica Galaad), le vicende dei tre più importanti suoi romanzi: Lila, Gilead, e Casa, che ruotano intorno agli stessi personaggi e alla stessa vicenda, una rilettura della parabola del padre misericordioso, una meditazione sugli affetti e sulla profondità della fede vissuta. Ciò che colpisce, nella sua scrittura, è il respiro calmo e fluente, un ritmo riflessivo a tratti lirico ed elegiaco (soprattutto nel rapporto tra padre e figlio scapestrato, in Casa), un dialogo intimo con il lettore, a cui ci si abitua volentieri. Perciò si resta un po’ sorpresi, nel leggere i testi non narrativi, nei quali volentieri l’autrice assume un tono polemico, nervoso, convintamente apologetico rispetto alla storia «morale» da cui proviene.

La storia morale è la consapevolezza delle radici della società americana e si riaffaccia anche in un’epoca in cui la secolarizzazione e gli assalti delle scienze (ma anche la scarsa consapevolezza di alcuni, che paiono denigrare le proprie origini) mettono a dura prova l’eredità calvinista passata attraverso il puritanesimo e i Padri fondatori. Una consapevolezza non diversa da quella che ha permesso ai figli e nipoti degli schiavi di trovare, filtrata dagli spiritual, la speranza di redenzione che sta nell’ Antico Testamento; quella che ha permesso di mettere in opera azioni umanitarie senza cadere nel generico filantropismo. La Prima Lettera di Pietro, scrive Robinson, «ci dice di onorare tutti» (2, 17 – pag. 48), «e non mi sono mai trovata in una situazione in cui questo insegnamento mi sia parso fuori luogo».

Un filo rosso percorre molte di queste pagine, un filo rosso che forse, nonostante la distanza che ci separa dal Midwest, dovremmo considerare: il «disastro sociale», il nostro modo di guardare con sufficienza ai problemi di chi vive male, va di pari passo con la perdita di consapevolezza della propria storia, e di pari passo con il decadimento culturale, anche a livello istituzionale (l’autrice spesso se la prende con l’ambiente universitario). Da queste pagine si capisce il senso che ha per l’autrice l’espressione «nugolo di testimoni» (Ebrei 12, 1, citazione non esplicitato né da lei né dall’editore). La saggista non tiene uno sguardo rivolto nostalgicamente al passato, né loda un’epoca aurea di maggior fede; e non si nasconde il pregio della ricerca scientifica, ma, poeticamente, ribalta il senso della contrapposizione tra sapere umanistico e sapere scientifico: «L’universo dei matematici (…), per quanto importanti possano rivelarsi col tempo le sue deviazioni rispetto all’universo oggettivamente esistente, è di una bellezza indicibile (…). L’universo che riescono a cogliere (…) nella totalità dei fenomeni, è magnifico per l’alone di sottintesi che lo circonda, per la forza seduttiva del “non ancora conoscibile”…».

Dunque, non contrapposizione, ma equilibrio si pesi e contrappesi, che impediscono al «religioso» di diventare integralista e allo scienziato di sentirsi onnipotente.

E quando attacca la cultura contemporanea, lo fa dicendo che quest’ultima non si accorge di buttar via delle vere e proprie ricchezze: nei secoli passati «il lutto, la melanconia, il rimpianto e la solitudine erano sentimenti nobili, come lo erano per i salmisti e per Sofocle, per i poeti inglesi antichi e per Shakespeare. Nella cultura contemporanea sono considerati patologie…» (p. 115): amara, ma lucida constatazione.

Se pensiamo a quanta materia abbiamo ancora a nostra disposizione, perché abbiamo con noi la Bibbia («a paragone di altre letterature antiche il realismo della Bibbia è davvero notevole – p. 156) e la storia, quella valdese e quella dell’evangelismo risorgimentale in tutte le sue denominazioni, scopriamo che, di fronte ai tanti mali e incertezze di oggi, qualche risorsa ce l’avremmo: se anche non riusciamo a utilizzarla subito, almeno cerchiamo di non dimenticarcene.

* M. Robinson, Quando ero piccola leggevo libri. Roma, Minimum Fax, 2018 (ed. originale 2012), pp. 251, euro 18,00.