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Il movimento ecumenico è vivo e vitale

Olav Fykse Tveit, pastore luterano della Chiesa di Norvegia, 57 anni, dal 2010 è segretario generale del Cec, il Consiglio ecumenico delle chiese, la più ampia e inclusiva tra le molte organizzazioni dell’ecumenismo moderno. Riunisce infatti oltre 350 chiese e associazioni ad esse collegate in rappresentanza di oltre 500 milioni di cristiani in 110 nazioni. Include la maggior parte delle chiese ortodosse, anglicane, battiste, luterane, metodiste e riformate, nonché molte chiese unite e indipendenti. In origine la maggior parte delle chiese fondatrici erano europee e nord americane, mentre ora la preminenza maggiore arriva dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina, dai Caraibi.

Quest’anno il Consiglio ecumenico delle chiese festeggia 70 anni, essendo stato fondato nel 1948 ad Amsterdam, e le celebrazioni avranno il loro culmine il 21 giugno, con la visita agli uffici di Ginevra da parte di papa Francesco.

In una pausa dei lavori dell’assemblea generale della Kek, la Conferenza di chiese europee, in corso in questi giorni a Novi Sad, ci facciamo da raccontare da Tveit lo stato di salute del Cec oggi:

«Il Consiglio ecumenico delle chiese compie 70 anni, dunque un’età da persona anziana e pensionata. Ma il Cec è tutt’altro che questo: direi che mai come ora è vivo e vitale, e il suo ruolo viene riconosciuto a livello internazionale quale interlocutore serio e credibile di fronte alle sfide delle società e delle chiese di oggi. Attorno al Cec, alle sue commissioni, alle sue persone, vi sono enormi aspettative in molte parti del mondo, forse anche superiori rispetto alle nostre reali capacità. Ma è il segnale che gli sforzi che ci caratterizzano nell’implementare il dialogo ecumenico e la riconciliazione fra realtà in conflitto vengono riconosciuti come importanti nei percorsi di crescita delle società».

Come è cambiato il movimento ecumenico in questi 70 anni?

«Tutto è cambiato. Il Cec è nato all’indomani del terribile secondo conflitto mondiale, e su quelle ceneri ha ripreso discorsi già intrapresi nei decenni precedenti. C’è stata quindi la guerra fredda, l’isolamento delle nazioni dell’est Europa e la conseguente repressione delle chiese nazionali. In quel periodo il Cec è stato fra i pochi interlocutori riconosciuti quali fautori di una reale cooperazione. Oggi le sfide sono altre, alcune ancora figlie di quel periodo: penso alla terribile situazione in Medio Oriente, ma anche ai troppi conflitti che ancora caratterizzano l’Africa post coloniale. Per quel che riguarda il dialogo ecumenico fra le varie anime del cristianesimo, enormi passi in avanti sono stati fatti, molti punti di unità sono stati trovati, anche se manca ancora la piena comunione, cui dobbiamo continuare a tendere. Credo anche che questi grandi sforzi di dialogo siano stati uno strumento di crescita per le chiese che vi hanno partecipato, che hanno spesso superato chiusure o settarismi in nome di un percorso comune».

 

La Chiesa cattolica non è parte del Cec, ma pare guardare con crescente attenzione al fermento in corso. La prossima visita di papa Francesco alla vostra sede di Ginevra si inserisce in qualche modo in questo filone?

«La visita del pontefice è un forte segnale di riconoscimento da parte del mondo cattolico: riconoscimento che esiste un movimento ecumenico mondiale, cui anche la chiesa cattolica partecipa. Francesco stesso ha più volte affermato che dobbiamo lavorare insieme, che vi sono enormi spazi per ciò. Da oltre trent’anni almeno, il Vaticano opera a stretto contatto con il Consiglio ecumenico e partecipa come osservatore a tutte le principali conferenze del Cec. Il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani inoltre nomina 12 membri all’interno della commissione Fede e Costituzione, creata dal Cec nello stesso 1948, oltre a partecipare ad alcuni altri organismi ecumenici a livello regionale e nazionale. La visita a Ginevra accenderà i riflettori del mondo su di noi e la nostra agenda. Mi pare un’opportunità importante da cogliere, così come lo è stato il cinquecentenario della Riforma protestante nel 2017, che ha evidenziato la voglia di unità pur nelle diversità riconosciute».

 

Il Cec è molto impegnato tramite commissioni e continui appelli nel tentativo di trovare una soluzione alla drammatica situazione in Medio Oriente, dalla Palestina alla Siria, passando per l’Iraq e gli altri scenari di guerra. Cosa si sente di dire a tal proposito?

«Il riconoscimento del nostro ruolo in quelle zone di guerra è figlio proprio del continuo invito al dialogo che incessantemente il Cec ha proposto in questi decenni. Veniamo in qualche maniera identificati quali facilitatori, capaci di creare un terreno neutro in cui far dialogare le parti in causa. Non dobbiamo mai stancarci di esser costruttori di pace, portatori di speranza anche laddove sembra non essercene più. E non solo certo per i tanti, tantissimi cristiani che in Medio Oriente soffrono, ma per l’intera popolazione, perché è solo di fronte ad una reale e completa pacificazione che si potrà costruire una società nuova, inclusiva e non esclusiva. La gente in Siria, in Iraq, in Palestina ha sofferto troppo. È ora di dire basta a tutto ciò, è ora di creare le condizioni per fare di quelle terre, che sono la culla del Cristianesimo, un luogo di pace ed esempio per l’intera umanità. Usare soltanto la forza non serve a nessuno, vi sono troppi squilibri fra chi possiede eserciti e tecnologie avanzate e chi no, le forze in campo sono troppo divergenti. Per questo, solo facendo tacere le armi si può tentare di avviare un dialogo reale che deve necessariamente passare attraverso il riconoscimento dell’altro».

Photo: Albin Hillert/CEC