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Un voto polarizzato per la Colombia

Domenica 27 maggio si sono tenute in Colombia le elezioni presidenziali, le prime dopo la fine della guerra civile tra lo Stato e le Farc, durata oltre 50 anni. Nel 2016, infatti, il lavoro diplomatico del presidente uscente, il centrista Juan Manuel Santos, aveva portato alla firma di un accordo bilaterale definitivo per la cessazione delle ostilità e per la promozione della pace. Proprio per questo motivo, era molta la curiosità su questo appuntamento elettorale. Come previsto da molti analisti, nessun candidato ha però raggiunto la soglia della metà più uno dei voti validi, necessaria per chiudere la partita al primo turno, quindi il prossimo 17 giugno si terrà il ballottaggio tra i due che hanno raccolto più consenso: da una parte Iván Duque, esponente del partito di destra radicale Centro Democratico e sostenuto dall’ex presidente Alvaro Uribe, dall’altra Gustavo Petro, di Colombia Humana, ex guerrigliero marxista già sindaco di Bogotà e sostenuto dalla sinistra radicale.

Il voto, che secondo gli osservatori internazionali si è svolto in piena normalità, ha registrato un’affluenza piuttosto alta per la Colombia e racconta di un Paese polarizzato, in cui il tema della sicurezza ha meno peso rispetto al passato e in cui anche per i partiti di sinistra è possibile arrivare a raccogliere grande consenso, supportati forse dalla crescente partecipazione giovanile. Secondo il giornalista e scrittore Alfredo Luis Somoza, «a grande maggioranza, cioè il 61%, i colombiani non hanno votato per chi proponeva di far saltare gli accordi di pace e riaprire un conflitto che è costato tanto tempo e tanto sangue, ma per forze politiche che sono per l’applicazione, il controllo e il monitoraggio degli accordi e non per riaprire quella ferita. Questa è la prima grande sconfitta del mandante politico di Iván Duque, ovvero l’ex presidente Alvaro Uribe, la persona che più ha fatto in senso militare per sconfiggere le Farc, senza successo, e anche la persona che più ha fatto per tentare di sabotare l’accordo». I risultati del primo turno hanno invece premiato Gustavo Petro, già popolare sindaco della capitale della Colombia, Bogotà, e poi parlamentare, che ha raccolto il 25%. «Ma la cosa interessante – precisa Somoza – è che con una manciata di voti dietro di lui è arrivato Sergio Fajardo, ex sindaco di Medellin, un centrista che ha costruito attorno a sé una coalizione di centrosinistra insieme ai verdi colombiani, che sono un partito molto forte». Fajardo, che ha ottenuto il 24% dei voti, ha già annunciato il suo sostegno a Petro al secondo turno, garantendo un bacino di sostenitori molto vicino al 50% necessario per diventare presidente.

Se da un lato c’era molta curiosità per il post-accordo, dall’altra questo voto arriva in una fase storica dell’America Latina che vede ovunque un crescente peso del voto evangelico. Anche in Colombia, questa campagna presidenziale ha visto una presenza forte come non mai dei cristiani evangelici, tanto come sostenitori dei candidati, quanto come candidati direttamente.

Gran parte di questa esposizione pubblica è dovuta a Viviane Morales e al suo particolare percorso durante la campagna. Le sue dimissioni a metà strada per portare avanti una sua candidatura hanno anche causato molti commenti e valutazioni che hanno coinvolto anche pastori, chiese ed entità cristiane, ma il suo ritiro il 2 maggio ha ulteriormente scombinato le carte in tavola.

Il cosiddetto “fattore evangelico” è diventato sempre più rilevante in Colombia dopo l’inatteso risultato del referendum del 2016 sull’accordo di pace con le Farc, respinto nella sua prima versione dai cittadini colombiani e poi rilanciato con alcune variazioni dal presidente uscente Santos.

Pochi giorni prima del voto il pastore Héctor Pardo, uno tra i maggiori protagonisti del dialogo per la pace con le Farc e presidente della Confederación Colombiana de Libertad Religiosa, Conciencia y Culto, affermava che «il voto cristiano evangelico sarà decisivo per l’elezione del prossimo presidente». Pardo riteneva infatti che in questa campagna «tutti abbiano cercato gli evangelici, ma l’immensa maggioranza è incline al candidato Iván Duque; è lui che ha promesso di promuovere il pensiero giudeo-cristiano». Anche Ronald Rodriguez, giornalista evangelico, sposava questa tesi, sottolineando che «Viviane Morales e il suo gruppo sono andati a sostenere Iván Duque, ma le chiese sono guardate come l’oro dalla maggioranza dei candidati che vedono in loro voti e non credenti».

Eppure, non tutto è andato secondo le previsioni: anche il più prudente tra i commentatori di area protestante assegnava al “voto evangelico” un peso pari ad almeno il 2,7% dei consensi, ma alla prova dei fatti il predicatore evangelico della Igreja de Deus, una mega-church brasiliana, ha raccolto appena lo 0,4% dei voti e non ha spostato gli equilibri verso la destra di Duque. «È comunque un fenomeno da tenere d’occhio perché lo stiamo vedendo in tutta l’America Latina», spiega Alfredo Luis Somoza. «In Costa Rica abbiamo avuto un ballottaggio un paio di mesi fa tra un candidato socialdemocratico, che ha vinto, e un predicatore pentecostale. Il mondo delle chiese evangeliche pentecostali sta cambiando strategia ultimamente». In passato, e la storia politica brasiliana lo testimonia, le chiese sostenevano volta per volta una forza politica garantendo dei pacchetti di voti importanti. Lula, per esempio, andò al governo portando con sé un vicepresidente membro di una chiesa evangelicale. «Quello che sta succedendo adesso – prosegue Somoza – è che invece molti si stanno direttamente presentando come candidati, senza più l’intermediazione dei partiti tradizionali, ma scendendo direttamente in campo. In questo momento sono ancora candidati perdenti, perché non raggiungono una massa critica tale da permettergli di vincere un’elezione, ma hanno una dimensione di tutto rispetto». In Colombia il richiamo al voto identitario a partire dall’appartenenza religiosa questa volta non ha funzionato, ma sono altri i Paesi più interessati al fenomeno della diffusione di chiese della “terza Riforma”. La vera prova per il “voto evangelico”, infatti, è alle porte, ed è rappresentata dalle imminenti elezioni brasiliane, che si terranno a ottobre. Qui, così come in America centrale e in Perù, si potrà valutare attraverso le urne un continente in cui la fede è sempre in evoluzione.