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La trasfigurazione poetica

Théodore Strawinsky è uno dei figli di Igor Strawinsky, il grande compositore. La famiglia ha origini slave, che sono state molto importanti per lui e per la sua arte, ma ha avuto un percorso nomade: i suoi genitori hanno lasciato la Russia per la Svizzera e la Francia, continuando a parlare russo in famiglia anche se i figli hanno vissuto per la maggior parte in zone francofone. Théodore, a differenza del fratello, ha deciso di non seguire le tracce del padre nel campo della musica, ma si è orientato verso la pittura sfruttando le possibilità di venire in contatto con molte figure e artisti importanti. A Parigi ha potuto frequentare i balletti russi, Picasso, Braque, André Derain, è stato in contatto diretto con le avanguardie del XX secolo trovando tra questi i suoi maestri. Fu principalmente un artista autodidatta ma entrò all’accademia negli anni ‘30, quando si sentì arrivato a un punto in cui aveva bisogno di altri spunti per sviluppare la sua tecnica. Quando, dopo la morte della moglie, Igor Strawinsky deciderà di trasferirsi negli Stati Uniti, si stabilirà a Ginevra dove passerà il resto della vita.

Nonostante la possibilità di vivere in un secolo ricco di stimoli e imparare dai più grandi maestri, Théodore ha sviluppato una poetica sua, e ne parla la curatrice della mostra in corso a Casa De Rodis di Domodossola, Carole Haensler Huguet.

Come descriverebbe il lavoro di Théodore Strawinsky?

«L’aspetto centrale nella sua opera è probabilmente questa forma di dialettica tra la pittura tradizionale, più ottocentesca o di inizio Novecento, con le avanguardie. Una dialettica che troviamo anche in Picasso o nei grandi artisti legati alle correnti più innovative che poi, dopo la Prima Guerra Mondiale, sono tornati a un linguaggio classicizzante. Questo è il nucleo del linguaggio artistico di Strawinsky. Lo troviamo sempre molto legato alla figura, adotterà, per certi aspetti, la struttura dei cubisti ma non metterà mai in discussione l’integrità della figura umana. È molto legato al figurativo riportandolo, nonostante l’adesione alle avanguardie, a un linguaggio ottocentesco. Con lui seguiamo le questioni pittoriche cruciali della prima metà del XX secolo: in alcuni ritratti in mostra a Domodossola troviamo una riflessione sul decorativo che entra a far parte delle composizioni di nature morte o di nudi. La sua grande qualità è quella dell’osservazione della natura, nonostante abbia lavorato pochissimo dal vivo, faceva degli schizzi all’aperto che diventavano la forma di base del suo linguaggio, riportando poi su tela i paesaggi ricostruiti secondo le leggi della pittura».

Nonostante non abbia seguito la carriera musicale, l’ambiente paterno ha influenzato il suo lavoro?

«Ovviamente ha frequentato quegli ambienti e in vari momenti ha anche pensato a delle scenografie per le messe in scena di suo padre. Però in un certo senso lui è più tradizionale, è più legato alle sue origini slave che, se per esempio per Kandinsky erano una spinta verso un altro modo di vedere le cose, per Thèodore rappresentano un legame con le forme della tradizione. Questo rivela due personalità, quelle di padre e figlio, molto diverse, una più centrale e carismatica e l’altra più introversa che troverà, anche grazie al trasferimento del padre negli Stati Uniti, la sua strada».