cristina_montoya

Una forte “resistenza culturale” contro la guerra

Al seminario «Giornalismo e Pace», organizzato da NetOne, rete internazionale di giornalisti per la pace, e dalla rivista Città Nuova, nell’ambito dell’iniziativa «Sardegna, isola della pace» , tenutasi ad Iglesias il 5-6 maggio, ha partecipato anche la giornalista Cristina Montoya, colombiana, docente di comunicazione e intercultura presso l’Istituto universitario Sophia, e membro di NetOne. A lei abbiamo rivolto alcune domande.

— Per 52 anni la Colombia è stata devastata da una guerra civile il cui bilancio è di circa 200 mila morti, 25 mila sequestri e 130 mila feriti da mine. Ma la guerra ha fatto tanto altro…

«Sì, innanzitutto ha fatto dilagare la paura, il dolore, la solitudine, l’insicurezza. Una delle prime cose che fa la guerra è spezzare la comunicazione e instaurare il sospetto, inducendoci a controllare le nostre parole, i nostri discorsi, i nostri sguardi. Con il passare del tempo, le persone non hanno più un nome, un volto: o sono amico o nemico, o sono del “partito” del sì o del no, o sono di quelli che la pensano come noi o sono di quelli che pensano il contrario. La guerra isola le persone e instilla la paura. Credo che una delle cose più forti che la guerra in Colombia ha fatto in 52 anni – ma anche dove forse abbiamo anche più resistito – è aver lacerato il tessuto sociale, che è la base di una società».

— Come è riuscita a sopravvivere la società colombiana?

«Come diceva un giornalista colombiano, se siamo riusciti a sopravvivere ai nostri politici, ai governanti e ai guerriglieri, è perché abbiamo esercitato una fortissima “resistenza culturale” nella comunicazione, cioè abbiamo fatto dell’incontro tra le persone – con la possibilità di guardarci, di parlarci – la strada per riprenderci tutti gli spazi che la guerra man mano ci rubava. Questo ci ha permesso di sopravvivere in 52 anni di conflitto, che sono tanti… una vita!».

— In che modo si esercita la “resistenza culturale”?

«I modi sono infiniti come infinita è la creatività di ciascuno di noi. Ci sono però degli esempi per me molto forti, come quello accaduto in una regione della Colombia che si chiama Montes de María. Qui i giornalisti, non potendo più denunciare, parlare, perché le conseguenze del loro agire ricadevano proprio sulla popolazione civile, hanno contrastato questo fenomeno, facendo nascere un cineclub: diffondendo l’iniziativa in segreto e con il passaparola, hanno invitato la gente a venire con la propria sedia e a vedere insieme un film. Inizialmente le persone erano terrorizzate ma, finita la proiezione, di ritorno a casa, la gente parlando dalla vita dei personaggi del film riusciva a parlare e a raccontare anche la propria vita. Nell’incontro con il vicino, nel confronto reciproco, cresce anche la fiducia nell’altro. Ecco, tante iniziative hanno alimentato la “resistenza culturale”, dalla semplice conversazione alla condivisione di un pasto, o anche al pensare insieme al futuro dei giovani del paese. Fondamentale è aver facilitato la generatività della comunicazione, perché da una comunicazione autentica, che crea vicolo e porta all’incontro, nasce sempre qualcosa di grande».

— Che ruolo hanno le giovani generazioni in un paese così segnato dal conflitto?

«Noi siamo un paese prevalentemente giovane: il 40% della popolazione è fatto da giovanissimi. Credo che il loro ruolo sia importantissimo: sono loro che possono fare emergere una cultura di pace, perché la pace non è un affare che compete solo alle istituzioni. La pace positiva, quella che si genera e si costruisce, in questo momento è soprattutto in mano loro, ai quali va tutto il nostro sostegno».

— La speranza di pace per l’umanità è un’utopia o qualcosa di realizzabile?

«È un’utopia se consideriamo la pace, un orizzonte impossibile. Se di partenza crediamo che la guerra sia il modo “normale” di vivere dell’umanità, allora certamente non avremo pace. Se invece comprendiamo che, come è sparita la monarchia o anche la schiavitù, che sono esistite per secoli, così anche la guerra, come sistema di rapporti squilibrati tra gli uomini, può finire, allora sperare la pace è possibile! Tutto dipende dalla nostra determinazione e dalle azioni concrete che facciamo per realizzare la pace. Ripeto, tutte le istituzioni svolgono un ruolo importante, ma il ruolo fondamentale ce l’abbiamo tutti noi, la base: siamo noi che dobbiamo delegittimare la cultura della guerra».

 
Nella foto scattata da Marta D’Auria la giornalista Cristina Montoya