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Sempre più persone lungo la rotta balcanica

All’indomani dell’accordo sui migranti firmato dai governi dell’Unione europea e dalla Turchia, nel marzo del 2016 il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, annunciava che «Il flusso irregolare di migranti lungo la rotta dei Balcani occidentali è finito». Gli ultimi mesi, tuttavia, smentiscono questa affermazione in modo chiaro, confermando invece tutti i segnali che si potevano già leggere sin dall’autunno del 2016. È vero, dall’estate di quell’anno il flusso migratorio ha ripreso a concentrarsi sulla rotta del Mediterraneo centrale, svuotando ufficialmente la cosiddetta “rotta balcanica”, attraverso cui l’anno precedente erano transitati circa un milione di migranti.

Eppure, nonostante l’accordo Ue-Turchia, costato ai cittadini europei tra i 3 e i 6 miliardi di euro, di cui 250 milioni come contributo dell’Italia, nei primi mesi del 2018 sono fortemente aumentati gli arrivi di persone migranti dalla Turchia, per quanto al di sotto dei livelli della crisi del 2015. Il commissario europeo per le migrazioni, Dimitris Avramopoulos, ha tenuto mercoledì 16 maggio una conferenza stampa a Bruxelles evidenziando che «abbiamo constatato una ripresa degli arrivi, ma la situazione è sotto controllo e i numeri sono abbastanza gestibili». Nello specifico, sulle isole greche sono arrivati nel primo trimestre di quest’anno 9.349 migranti, mentre 6.108 sono giunti nel territorio europeo attraverso le frontiere terrestri, con un aumento dei passaggi soprattutto attraverso i confini di Albania, Montenegro e Bosnia-Erzegovina. Qui, in particolare, il numero di cittadini extracomunitari è aumentato di nove volte rispetto allo stesso periodo del 2017.

Silvia Maraone, di IPSIA, Istituto Pace Sviluppo e Innovazione Acli, ha raccontato questa rotta in queste settimane. «Dall’inizio di quest’anno abbiamo osservato, attraverso i report dell’Unhcr e le testimonianze dei migranti con i quali lavoriamo all’interno dei campi profughi in Serbia, che si stavano muovendo sempre più persone verso nuovi confini, quelli della Bosnia ed Erzegovina».

Limitatamente alla Bosnia ed Erzegovina, che dimensione ha il fenomeno?

«All’inizio si trattava di poche decine di persone, in particolare uomini, quindi persone senza una famiglia al seguito, ma negli ultimi mesi siamo arrivati a cifre che dicono che sul territorio bosniaco ci sono più di mille persone ferme in almeno tre luoghi. Innanzitutto Sarajevo, il primo punto in cui le persone arrivano attraversando i confini con la Serbia oppure venendo dal sud, dai campi in Grecia e che si stanno spostando verso la Bosnia attraversando l’Albania e il Montenegro. Poi le persone si spostano verso il confine occidentale tra la Bosnia e la Croazia, cioè nell’ampia porzione di territorio tra Velika Kladuša e Bihać e da lì cercano di attraversare il confine e andare poi verso l’Unione europea».

Chi sono queste persone?

«Stiamo parlando in gran parte di persone che sono bloccate nei territori dei Balcani dal marzo 2016 e tra l’altro agli uomini che avevano iniziato la rotta bosniaca si sono aggiunte tante famiglie con minori. A loro si aggiungono poi altre persone che continuano tutti i giorni a sbarcare in Grecia, per cui possiamo dire che nemmeno la rotta Turchia-Grecia è chiusa. Sono individui e famiglie che provengono o dai campi profughi in Serbia o dai campi profughi in Grecia. In Serbia erano rimasti bloccati soprattutto afghani, pakistani, iracheni e iraniani, in Grecia invece sono ancora in attesa della famosa relocation i siriani. Quindi in Bosnia in questo momento, a seconda che vengano da sud o da nord, abbiamo sia siriani, sia afghani, pakistani, iracheni e iraniani».

Ci sono servizi di accoglienza che riescono a farsi carico di queste persone o invece, visti anche i numeri tutto sommato ancora limitati, parliamo di una migrazione che si autogestisce?

«Si autogestiva fino a poco fa, nel senso che nelle varie cittadine si potevano contare 100 o 200 persone al massimo, che transitavano anche abbastanza velocemente. Oggi invece in Bosnia sta succedendo quello che è successo in Serbia all’inizio, quando la rotta si è chiusa, per cui non abbiamo campi, ma principalmente delle strutture, solitamente vecchi edifici, che sono state occupate, come l’ex studentato di Bihać, dove lavoriamo con la Croce Rossa. A Sarajevo, invece, i volontari hanno montato le tende davanti alla biblioteca».

E per quanto riguarda le grandi organizzazioni internazionali?

«L’Unhcr al momento non intende intervenire in maniera particolare, mentre l’Oim, l’organizzazione internazionale per le migrazioni, sta supportando in parte le organizzazioni attive sui territori. Tuttavia, dal punto di vista della Bosnia ed Erzegovina, che è un Paese già di per sé complicato, non c’è la volontà di aprire campi e offrire ricovero, anche perché questo è uno dei famosi “pull factor” per cui le persone si sposterebbero da altri campi in cui già stanno, in Serbia o in Grecia, per andare in altri campi dove comunque sarebbero garantiti i servizi. La Bosnia non vuole migranti, per cui in questo momento siamo alle porte di una possibile crisi, nel senso che in questo momento nessuno sta gestendo la situazione, ma questa potrebbe veramente diventare importante nei prossimi mesi».

Ci sono vari motivi di preoccupazione: la chiusura dei confini fa sì che queste persone non possano in molti casi andare oltre, mentre è improbabile che ci si fermi in Bosnia ed Erzegovina, dove le prospettive di lavoro non sono buone. Ragionevolmente quindi qual è la prospettiva per queste persone?

«È la stessa che le persone avevano stando nei campi in Serbia. Queste sono comunque zone di transito, perché le persone fanno di tutto per cercare di attraversare illegalmente i confini e lo fanno in due modi: attraverso i trafficanti, pagando per andare nei camion, nelle auto o comunque con mezzi di trasporto di questo genere, oppure a piedi attraverso i confini con le mappe sullo smartphone. Tra l’altro in Bosnia, sul confine di Velika Kladuša e Bihać, abbiamo un’altissima presenza di mine e di ordigni inesplosi, per cui sta succedendo quello che nel 2015 era successo al confine tra la Serbia e la Croazia, nella zona verso Vukovar per intenderci. Sono situazioni veramente rischiose. Oltretutto la polizia croata, esattamente come al confine tra Serbia e Croazia, anche qui opera respingimenti con grande uso di violenza e di maltrattamenti».