manuele-fior-salone-torino-1

Affacciati sulla città, alla ricerca di se stessi

Una celebre canzone-dramma di Giorgio Gaber metteva a confronto il bambino figlio del miliardario con il bambino povero. Il papà dell’uno poteva cambiare auto e motoscafo ogni anno; il papà dell’altro non poteva permettersi nemmeno di cambiare idea. E se, dall’alto della collina, il miliardario diceva al figlio: «Guarda! Tutto quello che vedi un giorno sarà tuo», il papà poveraccio, dall’alto della stessa collina, diceva al figlio: «Guarda». Basta. Punto. Eternità dei ruoli, destino segnato, rassegnazione. Sicuramente sarà stata presente questa immagine a chi ha ideato lo slogan e il logo del torinese Salone del libro, conclusosi ieri per l’edizione numero 31. Una figura che ricorda molto da vicino quella di un capolavoro del romanticismo, il celebre «Viandante sul mare di nebbia» di Caspar David Friedrich: solo che invece del paesaggio rupestre e misterioso, ai piedi della figura c’è Torino con la sua Mole Antonelliana. E lo slogan era proprio «Un giorno tutto questo…».

            Che cosa? Quando? Gli organizzatori di questa edizione travagliata (viene da dire così tutti gli anni, visto che incombono problemi finanziari – e dove non ci sono? –, rivalità con Milano, ecc.), ma che come al solito ha visto aumentare ancora il numero globale di visitatori e di espositori, hanno inteso porre a un certo numero di loro invitati una serie di domande. Come ogni anno sarebbe stato impossibile per qualunque visitatore cogliere anche solo un assaggio di tavole rotonde, dibattiti, incontri informali, caffè letterari. Ma al visitatore, travolto da un programma ormai decisamente eccessivo nell’offerta, restava una soluzione, che credo non sia stata estranea allo scrittore Nicola Lagioia, direttore del Salone, e al suo staff: queste domande vengono poste a scrittori, docenti, commentatori, giornalisti, e va tutto bene. Ma sono, in fondo, domande che restano per ognuno e ognuna di noi, e che hanno nel bene e nel male a che fare con la vita di tutti i giorni. Anche quelli a venire.

            Eccole: Chi voglio essere? (non è si badi, la solita: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo – domanda antica come la storia della filosofia, a partire dai Greci, anche se forse è stato Renzo Arbore con «Quelli della notte» a portarla nelle nostre case); Perché mi serve un nemico? A chi appartiene il mondo? (ecco, al papà del bambino ricco forse apparteneva non il mondo, ma una porzione di città sì); Dove mi portano spiritualità e scienza? Che cosa voglio dall’arte: libertà o rivoluzione?

            Non basta una fiera, né una carriera e nemmeno una vita per rispondere a queste domande; né basta seguire un dibattito per poi sentire risposte magari superficiali, per rispettare i tempi. Serve, invece, usare il Salone come un volano, che possa espandere i ragionamenti proposti e farli ripartire anche dopo, capillarmente e in occasioni e luoghi diversi: un grande ruolo, come ogni anno, viene svolto dalle scuole, sempre molto presenti: i ragazzini certo non si soffermeranno ad ascoltare Javier Marias o Vito Mancuso, ma vedranno con i loro occhi che i «grandi» lo fanno, forse con un po’ di fanatismo per la «star» di turno, ma anche con compunzione, facendo lunghe code, ascoltando chi parla e poi applaudendo. Come i bambini al culto: non possono capire tutto, ma possono abituarsi all’idea che i loro genitori ci vanno perché questa pratica ha un senso. E oggi saper ascoltare qualcuno che parla non è scontato.

            Il Salone, come già in altre edizioni, ha avuto la capacità di espandersi anche in provincia e in periferia, grazie soprattutto all’iniziativa di referenti locali, associazioni, enti locali; e così alcuni autori importanti si sono potuti ascoltare in sedi decentrate. Per esempio Eraldo Affinati, scrittore e insegnante che da sempre lavora nelle borgate romane e con i ragazzi immigrati: collegando la Resistenza vissuta dai familiari con i dissesti delle periferie urbane, passando per gli studi su Bonhoeffer, si è posto, interrogato dai ragazzi di una terza media, il problema di chi cresce in un contesto povero, che non è solo povero di mezzi materiali (ancora il bambino dall’alto della collina), e deve fronteggiare un tumulto di sentimenti, che possono essere distruttivi oppure, se bene incanalati, indirizzati a costruire l’individuo di domani.

            Il Salone è stato ancora una volta il «contenitore» che conosciamo, dove in fondo ognuno e ognuna di noi va in realtà alla ricerca di se stesso o se stessa, trovando conferme ai propri gusti editoriali o semplicemente curiosando fra gli stand (un po’ troppo numerosi quelli che dilagano proponendo gadget di vario genere), alla ricerca dei «grossi nomi» da ascoltare o da vedere da lontano (accade soprattutto da quando cantanti, attori e calciatori scrivono libri: ma anche loro avvicinano alla lettura chi non ci penserebbe affatto) o alla ricerca di un modo come un altro per vivere la propria città. C’è stata anche, in un piccolo stand, la moglie di un pastore e teologo valdese, che nel suo libro racconta la malattia del marito: ha parlato con toni sommessi, delicati, anche ironici. C’è spazio anche per questa dimensione, al Salone, una dimensione che rimanda ad altro. Non dimentichiamoci che l’immagine del logo, che è quella di Caspar Friedrich e di Giorgio Gaber, ed è anche quella del disneyano «Re Leone», può rimandarci a una più antica: quella di Mosè al quale (ultimi capitoli del Deuteronomio) è dato di vedere «il paese» senza potervi entrare. Il suo popolo vi è poi entrato.