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Quale futuro per il nucleare iraniano?

È attesa per questa sera, martedì 8 maggio, la decisione degli Stati Uniti sull’accordo relativo al programma nucleare iraniano, sottoscritto nel 2015 da Iran, Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, Germania e Unione europea. L’amministrazione statunitense era chiamata a decidere entro il 12 maggio se applicare nuovamente sanzioni economiche e finanziarie al regime di Teheran oppure rinnovarne la sospensione, diretta conseguenza dell’intesa firmata dall’allora presidente Obama. L’impressione, condivisa praticamente da tutti gli osservatori ma duramente criticata in Europa, è che il presidente repubblicano Trump sia intenzionato a reintrodurre le sanzioni e a uscire dall’accordo, che in passato ha definito “folle” e di cui ha detto che «non si sarebbe mai e poi mai dovuto sottoscrivere». La questione è tanto tecnica quanto geopolitica: «tutti gli attori regionali e gli Stati Uniti – spiega Eleonora Ardemagni, ricercatrice Medio oriente e Nord Africa per Ispi e analista Golfo e Mediterraneo orientale per la NATO Defense College Foundation – stanno utilizzando questo accordo tecnico sul nucleare per tentare di sovvertire quelli che sono gli attuali equilibri geopolitici regionali che vedono l’Iran in una posizione di egemonia, in particolare nel Levante arabo». Smantellare l’accordo, ovvero una delle possibili conseguenze del disimpegno unilaterale statunitense, sembra prima di tutto un tentativo di isolare nuovamente l’Iran rispetto al panorama mediorientale e dare nuova linfa alle posizioni più dure di Israele e Arabia Saudita contro Teheran.

Nonostante i timori che parte della comunità internazionale aveva manifestato al momento della firma, e nonostante le accuse lanciate nelle ultime settimane dal primo ministro israeliano Netanyahu, in termini formali l’accordo funziona: per dieci volte l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’Aiea, incaricata di monitorare l’implementazione dell’accordo, ne ha confermato la corretta applicazione e ha verificato l’assenza di violazioni. Per contro, il Jcpoa non sta funzionando proprio per l’Iran. «Rouhani – prosegue Ardemagni – ha giocato tutta la sua campagna elettorale per la rielezione, che poi è avvenuta, proprio sull’apertura economica del Paese e sulla capacità dell’Iran di intercettare questo rinnovato dinamismo, seguito alla rimozione delle sanzioni. Da questo punto di vista l’accordo finora non ha funzionato come il presidente Rouhani si era augurato, perché ci sono state e rimangono delle difficoltà a livello anche a livello bancario e a livello di investimenti». Dello stesso parere anche Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies, della rivista Geopolitics of the Middle East e della ricerca sul Medio Oriente presso il Centro Militare di Studi Strategici (Cemiss) del ministero della Difesa: «il Jcpoa non produce effetti perché il sistema bancario europeo è in questo momento paralizzato dall’impossibilità di erogare crediti a favore delle imprese che operano in Iran in virtù dei timori di vedere i propri interessi negli Stati Uniti compromessi o congelati in funzione delle attività sviluppate con il mercato iraniano».

Che cosa succederà dopo la decisione dell’amministrazione statunitense? Se, come tutto fa pensare, si va verso un’uscita degli Stati Uniti dall’accordo, prima di tutto si dovrà gestire un problema di natura tecnico-giuridica. «Questo – spiega infatti Nicola Pedde – sarebbe un po’ un caso unico nella storia degli Stati Uniti e degli accordi siglati e ratificati dalle Nazioni unite. Sotto il profilo tecnico e amministrativo si porrà soprattutto per il Congresso il problema di gestire un accordo già ratificato dalle Nazioni unite, il che richiede una procedura che in pochi conoscono e di cui pochi sanno che cosa potrebbe produrre in termini di effetti. Non è escluso che lo stesso Congresso possa alla fine constatare l’impossibilità di sottrarsi a un impegno già preso. Inoltre, sotto il profilo tecnico per l’Europa l’accordo continua ad avere validità piena». Tuttavia, il ruolo degli Stati Uniti è decisivo: le sanzioni introdotte dal Congresso nel 2012, infatti, richiedono che anche gli altri Paesi riducano l’importazione di petrolio iraniano per evitare di incorrere in sanzioni statunitensi sulle loro banche e sulla loro possibilità di effettuare transazioni finanziarie con soggetti collegati a Teheran. La sospensione di queste sanzioni, che dev’essere firmata ogni 120 giorni, non è mai stata così in bilico. Subito dopo il tweet di Donald Trump, dall’Iran è arrivata la reazione del presidente iraniano Hassan Rouhani, che durante a una conferenza dedicata al petrolio ha dichiarato che se gli Stati Uniti dovessero lasciare l’accordo, l’Iran «dovrà affrontare alcuni problemi per due o tre mesi, ma li supereremo».

Rouhani ha poi aggiunto che l’Iran «continuerà a lavorare con il mondo con un impegno costruttivo». Oltre alle difficoltà tecniche, l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo aprono scenari regionali e internazionali difficili da prevedere: tra i Paesi del Golfo è forte il desiderio di un potenziamento dei propri armamenti e il principe reggente dell’Arabia Saudita, Mohamed Bin Salman, ha dichiarato esplicitamente la volontà di dotarsi di armi nucleari in risposta alla minaccia iraniana. In uno scenario che fa immaginare in tempi brevi un nuovo conflitto in Libano e una possibile nuova fase della guerra in Siria, aprire la strada a queste ipotesi significa alzare la temperatura oltre il livello di guardia. Tuttavia, questa potrebbe essere una scelta miope. «La permanenza in vigore dell’accordo sul nucleare iraniano – chiarisce Eleonora Ardemagni – paradossalmente è negli interessi anche di Israele e dell’Arabia Saudita, perché questo significa che l’accordo viene mantenuto e che possono continuare le ispezioni che finora l’Aiea ha portato avanti. Se questo accordo viene in parte smantellato, e così sarebbe con il ritiro unilaterale americano, questo non va nell’interesse della sicurezza regionale e internazionale. Dico di più: Russia e Cina si sono espressi a favore del mantenimento in vigore dell’accordo sul nucleare, quindi se gli Stati Uniti si ritirano e se l’Europa si trova in una posizione di difficoltà, saranno Cina e Russia a guadagnare nuovi spazi di influenza in un Paese che tornerà marginale rispetto alla politica internazionale». Nonostante abbia giocato un ruolo di primo piano nelle trattative per l’accordo, l’Europa non sembra essere riuscita finora a modificare le posizioni e le convinzioni della Casa Bianca. I tentativi di Francia, Regno Unito e Germania di conservare l’accordo non hanno dato esito, così come non sembrano essere servite le proposte di modifica arrivate soprattutto dal presidente francese, Emanuel Macron. «Va detto che l’idea della Francia era un po’ naïve», afferma Pedde. «La riforma dell’accordo non è stata negoziata né con gli americani né con gli iraniani, mentre negli Stati Uniti è stata accolta con grande freddezza. Sostanzialmente è stato un buco nell’acqua». Più ancora del fallimento del tentativo francese, a preoccupare è il vuoto europeo: anche in questa occasione Bruxelles non è riuscita a esprimersi con una sola voce. «Il fatto – conclude Nicola Pedde – è che o queste politiche vengono concordate e vengono sviluppate sulla base di un tavolo comune, e soprattutto concordate sulla base di una volontà comune dei Paesi dell’Unione, o il rischio di vederle fallire miseramente com’è stato il caso di questa occasione è altissimo».