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More limits

Il logo «no limits» associato a una nota marca di orologi sportivi di pregio risale al 1991. Era caduto il muro di Berlino, non si parlava ancora di globalizzazione, non c’erano gli smartphone o le previsioni meteo sul web. Ricordo le riviste di montagna con pagine di pubblicità sul tema, dove alpinisti-atleti trasmettevano il messaggio che con la tecnologia e gli strumenti giusti si potevano superare i propri limiti, sino proprio a non averne più.

Implicitamente performance infinite, zero limiti. Le prime spedizioni commerciali all’Everest sono degli anni ‘90, il fenomeno è poi esploso in tempi più recenti, per numeri e volume di affari (e mole di rifiuti prodotti). Basta pagare e ti garantiscono tracce e campi attrezzati, ossigeno a sufficienza e personale qualificato. Certo poi sino in vetta arranchi tu, consumatore dell’alta quota addomesticata. È giusto vendere l’esperienza, pagare per superare artificialmente un limite? È sano avere campi-base superattrezzati con tavoli da ping-pong per lo svago e colazione servita in tenda senza dovere uscire dal saccopelo? Nel mondo capitalista in cui viviamo è considerato normale vendere l’esperienza del bello, pagare per avere servizi all’altezza, compreso qualcuno che si prenda la responsabilità delle decisioni e potenzialmente ammazzi anche il rischio; e via, tutti in coda con la maniglia autobloccante su una corda fissa!

Nelle scorse settimane ha avuto luogo una traversata in sci da Vienna a Nizza, a ricalcare le orme di un gruppo di scialpinisti che 47 anni prima l’aveva compiuta in tempi stratosferici e con ben altra attrezzatura: alla fine ce l’hanno fatta a completarla, ad abbassarne i tempi, ma senza avere il tempo di aspettare il meteo bello per salire le stesse montagne. La ripetizione di una traversata epica è diventata mediaticamente una competizione che semplicemente non si poteva perdere, non con i materiali e gli strumenti di oggi (live-tracking della posizione via web), non sponsorizzati da una bevanda che ti gasa e ti sveglia quando sei morto di stanchezza.

È cronaca recente un weekend nero con 15 morti in montagna, la maggior parte sulla Pigne d’Arolla, scialpinismo d’alta quota sulla Haute-route Chamonix-Zermatt; venti tempestosi, whiteout, la guida alpina che conduce il gruppo che precipita, il gruppo che affronta una situazione di emergenza, il rifugio che non li aspettava e quindi non chiama i soccorsi, notte all’addiaccio, parecchi morti di freddo. Facile dire qualunque cosa con il senno di poi: ogni opinione (anche non giudicante) si confronta con il proprio concetto di limite.

È giusto che esistano dei limiti. La natura, la Terra, gli elementi esigono rispetto, incutono timore. Il Chogori (K2, la montagna degli italiani, salita nel 1954, grande orgoglio nazionale, erano i nostri astronauti sulla Luna..) nel 1939 è stata quasi salita da un tedesco-americano e da uno sherpa, che se avessero proseguito sarebbero probabilmente arrivati in vetta al tramonto, dovendo bivaccare nei pressi, circostanza che fece loro paura, e infatti lo sherpa indusse il compagno a tornare indietro perché di notte la vetta era frequentata da spiriti maligni. La storia dell’umanità è stata un continuo superare i propri limiti, ogni epoca ha le sue Colonne d’Ercole, cambiano contesti e strumenti, non la voglia di andare oltre.

Il punto è a fare cosa. Vale per la montagna, l’esplorazione tout-court, per la ricerca scientifica, vale per la vita. Imparo a camminare, cado, mi rialzo, supero il limite di percorrere quanto è nel mio spazio visivo. Andare oltre è uno dei sali della vita. La tecnologia aiuta ma non deve annullare il timore e il rispetto per la montagna. Siamo ancora piccoli e insignificanti rispetto alla natura, e godere della sua bellezza resta una benedizione! Dov’è finito il senso del limite, quello dello sherpa al K2 nel 1939 ? Ai monti alzo gli occhi miei, da chi l’aiuto mi verrà? Ma se alzo gli occhi non è solo perché sto guardando dove vorrei che arrivassero i miei passi, ma anche perché ho un po’ paura ad andarci! Mosè non è andato spensierato sul Sinai.

Riflettendo sul concetto di limite non può non venire in mente Alex Langer, che al posto del citius, altius, fortius – più veloce, più alto, più forte – che rappresenta in sintesi lo spirito della nostra civiltà, proponeva una radicale concezione alternativa, un lentius, profundius, suavius – più lento, più profondo, più dolce. «Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza)» (Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio, 2011).