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L’umanità afroamericana e la liberazione operata da Dio

Pochi giorni fa, il 28 aprile, è morto a New York James H. Cone, noto anche in Italia come il padre della teologia nera della liberazione. Soltanto due giorni prima, a Montgomery in Alabama, città simbolo del movimento per i diritti civili, era stato inaugurato il National Memorial for Peace and Justice e l’annesso Legacy Museum: from Slavery to Mass Incarceration, il primo museo dedicato alla schiavitù dei neri. Certo, una coincidenza senza nessuna correlazione, ma che non può non colpire.

Nato in Arkansas nel 1936, quasi vent’anni prima che una sentenza della Corte suprema dichiarasse incostituzionale la segregazione razziale, Cone iniziò presto a frequentare con la famiglia la chiesa metodista episcopale africana e, a 16 anni iniziò a predicare in alcune comunità di questa denominazione. Dopo aver conseguito il B.A. al Philander Smith College di Little Rock, studiò al Garrett-Evangelical Theological Seminary, un seminario teologico della United Methodist Church, e alla Northwestern University di Evanston, nell’Illinois, dove nel 1965 conseguì il dottorato con una tesi sull’antropologia teologica di Karl Barth.

Se gli studi lo avevano portato ad approfondire la tradizione teologica protestante europea, le questioni che agitavano la società americana in quegli anni (Martin Luther King e il movimento per i diritti civili, Malcom X e il Black Power e poi gli scontri nel ghetto nero di Detroit del 1967 con 43 morti) lo costrinsero a una profonda revisione critica, che lo condusse a domandarsi: «Che significato poteva avere Karl Barth per studenti neri che provenivano dalle piantagioni di cotone […], per tentare di cambiare la struttura delle loro vite in una società che aveva definito i neri come non-esseri?» (God of the Oppressed, p. 3).

Questa revisione lo portò a elaborare una teologia nera della liberazione e a scrivere alcune delle opere teologiche più significative del suo tempo: Black Theology and Black Power (1969), A Black Theology of Liberation (1970; tr. it. parziale delle due opere in La teologia nera della liberazione e black power, 1973), God of the Oppressed (1975) [tr. it. Il Dio degli oppressi, 1978]. Il dibattito suscitato dal suo primo libro gli valse anche la chiamata a insegnare teologia nel prestigioso Union Theological Seminary di New York, dove è rimasto per il resto della sua vita. Nei suoi scritti, Cone ha messo in relazione l’umanità afroamericana con la liberazione operata da Dio e la teologia nera della liberazione può essere definita come «una teologia che è senza riserve identificata con i fini della comunità oppressa e cerca di interpretare il carattere divino della loro lotta per la liberazione» (A Black Theology of Liberation, p. 11). Cone ha denunciato il razzismo come l’eresia dei nostri tempi: «Essere razzisti è restare fuori dalla definizione della Chiesa. Nel nostro tempo la questione razziale è analoga alla controversia ariana del quarto secolo. Atanasio si rese perfettamente conto che tollerando il punto di vista di Ario il cristianesimo era perduto. Pochi uomini di chiesa bianchi, però, si sono chiesti se il razzismo fosse un rinnegamento di Cristo analogo a quello» (Black Theology and Black Power, p. 73).

In uno dei suoi ultimi libri, The Cross and the Lynching Tree (2011), Cone aveva esplorato il significato di due dei simboli più carichi di significato della storia della comunità afroamericana, la croce e l’albero del linciaggio, e la loro interconnessione: «Entrambi sono simboli della morte dell’innocente, dell’isteria di massa, dell’umiliazione e del terrore». Attraverso la memoria delle oltre 4000 vittime dell’era dei linciaggi, Cone aveva ricordato che ogni teologia cristiana ha il compito di spiegare come la vita possa essere resa significativa di fronte alla morte e all’ingiustizia.

Ed è proprio la memoria dei linciaggi che il nuovo museo di Montgomery vuole preservare e integrare nella narrazione della storia degli Stati Uniti.