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La geografia della morte di Stato

Giovedì 12 aprile Amnesty International ha presentato il rapporto 2017 su condanne a morte ed esecuzioni. A emergere è la generale diminuzione del ricorso alla pena di morte nello scorso anno, in calo soprattutto rispetto al picco delle esecuzioni del 2015 e a quello delle condanne a morte nel 2016. Se il numero totale è sceso, il numero di Paesi che hanno eseguito sentenze capitali e hanno imposto condanne a morte è rimasto sostanzialmente stabile.

Amnesty International, che ogni anno raccoglie e verifica i dati sulla pena di morte a livello globale, ha registrato 993 esecuzioni durante il 2017, un numero leggermente inferiore a quello del 2016, quando furono 1.032, ma nettamente in calo rispetto alle 1.634 del 2015, il livello più alto dal 1989. «Con questa diminuzione – si legge nel testo del rapporto – il totale delle esecuzioni globali è tornato in linea con i numeri registrati prima del picco del 2015». Questi dati, tuttavia, non includono le sentenze capitali che si ritiene siano eseguite in Cina, dove l’uso della pena di morte rimane classificato come segreto di Stato. Amnesty ritiene comunque che si tratti di migliaia di casi, ovvero un numero superiore a quello di tutti gli altri Paesi messi insieme. «Quello su cui ci basiamo per dirlo – chiarisce Paolo Pignocchi, vicepresidente di Amnesty Italia – sono le informazioni di collaboratori e organizzazioni non governative che riescono a fare attività in Cina, insieme ad alcune notizie che vengono diffuse pubblicamente dai media cinesi, perché secondo il governo di Pechino il fattore deterrente della pena di morte esiste. La Cina, come tanti altri Paesi, Stati Uniti in testa, pubblica spesso notizie di efferati criminali che hanno trovato la morte per mano dello Stato. Su questa base è presumibile che quello che è reso pubblico sia solo una parte delle esecuzioni reali».

Osservando la mappa delle esecuzioni capitali nel 2017 ci si rende conto di quanto i Paesi mantenitori che non solo non hanno abolito il ricorso alla pena di morte, ma la applicano attivamente, sono sempre più isolati. A rimarcarlo è il fatto che il solo Iran risulti responsabile di più della metà di tutte le esecuzioni registrate e che insieme ad Arabia saudita, Iraq e Pakistan abbia eseguito l’84% di tutte le sentenze capitali registrate a livello mondiale. A questi vanno aggiunti gli Stati Uniti, uno paese mantenitore nelle Americhe e responsabile di 23 esecuzioni durante lo scorso anno.

Guardando oltre i semplici numeri, si può notare quanto sia la geografia della morte di Stato a mutare: alla fine del 2017 erano 106 i Paesi che hanno abolito per legge la pena di morte per tutti i reati, mentre 142 l’hanno abolita per legge o nella pratica.

La tendenza positiva riguarda soprattutto l’Africa subsahariana: mentre nel 2016 erano cinque i Paesi esecutori, oggi ne rimangono soltanto due, mentre anche le condanne a morte sono in netta discesa. In particolare, la Guinea ha abolito la pena di morte per tutti i reati, mentre il Kenya ha abolito quella con mandato obbligatorio per il reato di omicidio. Il numero dei paesi abolizionisti nella regione è quindi passato da nessuno nel 1977, quando Amnesty cominciò il proprio lavoro sulla pena di morte, agli attuali 20. «È come se fosse un faro di speranza – afferma Pignocchi – e il fatto che venga dall’Africa è molto importante. La Guinea è diventato il ventesimo Stato abolizionista della regione e si segnala un forte decremento delle condanne a morte e anche sviluppi legislativi in corso».

Se l’Africa subsahariana segna dei convinti passi in avanti, lo stesso non si può dire dell’Asia, dove rimane solida la connessione tra la pena di morte e i reati di uso e spaccio di droga. «È un filo rosso internazionale – spiega Paolo Pignocchi – e ci sono quattro Stati che ci preoccupano in modo particolare: l’Arabia Saudita, la Cina, l’Iran e Singapore, che per esempio ha eseguito 8 condanne a morte, tutte per reati connessi alla droga». Il caso di Singapore è forse quello più rilevante in questo senso: considerato un modello di sviluppo economico di successo e uno tra i Paesi più sviluppati del sudest asiatico, non ha mai messo in discussione il ricorso alle esecuzioni capitali per reati connessi alla droga. «Ogni volta che vado a Singapore – racconta Gabriele Battaglia, giornalista a Pechino – rimango un po’ colpito, perché già sull’aereo ti danno un foglietto con su scritto “ricorda che qui è prevista la pena di morte per reati connessi alla droga” e tutto il periodo a Singapore trascorre con questo foglietto che incombe nel tuo passaporto. È piuttosto inquietante». Sul caso di Singapore si è espresso anche Donald Trump: il presidente degli Stati Uniti ha infatti dichiarato che le politiche del piccolo Paese in materia di droga sono in linea con i suoi obiettivi, al punto che durante un vertice sugli oppioidi alla Casa Bianca a marzo i rappresentanti di Singapore ne hanno spiegato il funzionamento ai colleghi statunitensi. «Alcuni paesi – ha dichiarato Trump – hanno una pena molto severa e hanno meno problemi di droga di noi».

Per contro, Amnesty International ha registrato un notevole decremento nel numero complessivo di sentenze capitali eseguite per i reati connessi alla droga e Iran e Malesia, due sostenitori del ricorso alla pena di morte per questi crimini. «Molti Stati sono intervenuti alzando il livello della punibilità, oppure abbassando la possibilità che una persona venga condannata alla pena capitale, portando a volte addirittura lo Stato a essere abolizionista. Questo fattore è determinante».

Il caso cinese è probabilmente il più difficile da documentare, non solo a causa del segreto di Stato che vige sulla materia, ma anche per la complessità della normativa cinese. Per esempio, la Cina prevede un’istituzione del tutto particolare, la “pena di morte sospesa”. In pratica, il condannato viene messo alla prova per due anni e se il suo comportamento è adeguato la pena capitale si trasforma in ergastolo. Oltre a questo, Amnesty sottolinea come Pechino abbia creato un vero e proprio Stato di polizia contro gli uiguri in Xinjiang, la regione turcofona a maggioranza musulmana, con l’aumento a livello locale di campagne con nomi come “colpire duro” o “guerra di popolo”, che in nome della battaglia contro il separatismo e il jihadismo portano all’aumento di esecuzioni.

A causa della dell’impenetrabilità del potere cinese, è difficile capire se qualcosa stia cambiando nel campo della pena di morte: in seguito all’assoluzione postuma nel 2016 di Nie Shubin, messo a morte nel 1995, e ad altri casi di condannati a morte innocenti, va però detto che diversi organi giudiziari ed esecutivi della Cina hanno emesso delle circolari con lo scopo di rafforzare delle salvaguardie sul giusto processo.

La tendenza alla globale riduzione del ricorso alla pena di morte rappresenta un’occasione per le Nazioni Unite, che potrebbero rilanciare il percorso per arrivare a una moratoria globale. «Il mondo – sottolinea Pignocchi – ha superato un punto di non ritorno e l’abolizione della pena di morte, quale ultima punizione crudele, inumana e degradante è a portata di mano».

Certo, il percorso è lungo e accidentato: per esempio in Iran nel 2017 sono state eseguite cinque condanne a morte su minori e nei bracci della morte iraniani ci sono ancora 80 persone. Tornando alla mappa globale, bisogna inoltre ricordare che ci sono ancora 21.919 prigionieri che sono in attesa di esecuzione.