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Dopo l’attacco alla Siria, resta aperta la crisi a Gaza

Tanto tuonò che piovve. L’annunciato raid USA Francia Gran Bretagna sulla Siria, per punire Assad per il rinnovato uso delle armi chimiche (senza esibire alcuna prova dell’accaduto) c’è stato. Ma si è trattato di un attacco circoscritto e delimitato, con preavviso a Putin, dichiarando che l’obbiettivo non era il rovesciamento di Assad (che per Trump resta un problema dei contendenti locali), ma solo quello di una ennesima lezione al Rais siriano. Anzi, le scorse settimane il Presidente degli Stati Uniti aveva annunciato la sua intenzione di ritirare al più presto le truppe USA dal Paese, prendendo di sorpresa lo stesso Pentagono.

E’ tuttavia errato parlare prematuramente di ritiro degli USA dal Medio Oriente: piuttosto, di una rinnovata logica bipolare, in cui si riconosce che la Siria appartiene alla sfera di influenza russa, e si sceglie l’altro campo, consolidando l’asse con Israele, i sauditi, gli Emirati e gli altri grandi paesi arabi, non senza contraddizioni interne, a partire dal Qatar allo stesso Egitto, per non parlare della Turchia sunnita.

La Siria sembra quindi tornare al suo massacro quotidiano. Resta invece aperta l’altra crisi a Gaza, con le settimanali “Marce del Ritorno” indette da Hamas, destinate a durare fino al 14 maggio, data di fondazione dello Stato d’Israele e dell’inizio della Naqba palestinese.  La reazione dell’esercito israeliano è stata particolarmente dura, con la scelta di utilizzare proiettili veri e non di gomma, provocando molti morti e feriti; e il ritardato uso dei normali metodi anti sommossa, in grado di evitare al massimo vittime tra i dimostranti: solo nell’ultima settimana l’adozione di questi metodi è stata più intensa, riducendo il numero dei colpiti.

Va detto tuttavia che proprio l’obbiettivo della marcia proclamato da Hamas, il “ritorno” dei rifugiati del ’48 e del ’67 dentro Israele, significa in sostanza chiedere la fine di Israele come Stato a maggioranza ebraica, e contrasta sia con precedenti posizioni di Hamas, che proclamavano di accettare la proposta dei due Stati lungo  i confini del ’67 (sia pure come tappa intermedia), sia con lo stesso Piano Arabo di Pace, lanciato dalla Lega Araba nel 2002, che a proposito dei rifugiati parla di “soluzione giusta e concordata”, e quindi concordata anche con Israele.

Non si può sottovalutare la svolta tattica compiuta da Hamas con la proclamazione di queste marce “non violente” (anche se in particolare in quest’ultima non sono mancate le bottiglie incendiarie e le granate). Ma proclamare come mezzo di lotta manifestazioni non violente e non il ricorso ad atti terroristici, alla Jihad armata, segna da parte di Hamas un salto di qualità, che si appropria delle tradizionali parole d’ordine lanciate dall’Autorità Nazionale Palestinese e da Al Fatah, che però non sono stati in grado di metterle in pratica se non sporadicamente. Hamas cioè tende a proporsi come rappresentante dell’intero popolo palestinese, e in prospettiva a sostituirsi alla stessa OLP come organizzazione cardine della resistenza palestinese.

Israele ovviamente teme questa svolta, che lo isola internazionalmente e lo pone di fronte a scelte difficili, e che soprattutto riporta il conflitto israelo-palestinese al centro dell’attenzione e dei media internazionali.

Ma la teme anche il Presidente Abbas, che in un primo tempo ha dovuto accodarsi, condannando la repressione israeliana, chiamando “martiri” i caduti, richiedendo la convocazione del Consigli di Sicurezza dell’ONU, ove una risoluzione di condanna non è passata solo grazie al veto USA.

Ma il Presidente palestinese è presto passato al contrattacco, rilanciando la pressione su Hamas, rinviando proprio in questi giorni il pagamento degli stipendi ai funzionari pubblici di Gaza (mentre quelli della Cisgiordania sono stati pagati). La tensione tra i due movimenti è giunta all’apice dopo il fallito attentato al confine di Gaza contro il Premier del Governo palestinese Hamdallah. Abbas chiede che Hamas ceda il controllo della sua forza militare, mentre l’organizzazione islamica vuole passare all’ANP solo l’amministrazione civile e la responsabilità della vita quotidiana degli abitanti della Striscia.