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Hotspot di Lampedusa, una struttura che va ripensata da capo

Ambienti inadeguati, bagni privi di porte e stanze senza separazione tra uomini e donne, tempi di trattenimento ben oltre le regole e acqua corrente interrotta durante la notte: queste sono alcune tra le testimonianze raccolte dai ricercatori della Cild, la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili insieme agli avvocati dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e dei mediatori culturali di IndieWatch, il 6 marzo, poche ore prima dell’incendio e della chiusura per ristrutturazione dell’hotspot di Lampedusa. Da questi racconti è nato un dossier, presentato martedì 10 aprile a Roma dalle organizzazioni che lo hanno realizzato.

L’approccio hotspot è stato inaugurato nel settembre 2015, dopo che nel maggio dello stesso anno la Commissione europea aveva proposto di sviluppare un sistema di prima accoglienza per i migranti entrati irregolarmente in Unione europea attraverso i luoghi in cui si registra il maggior numero di arrivi, ovvero principalmente in Italia e in Grecia. Lo scopo era quello di identificare e registrare migranti e profughi e permettere loro di entrare nel programma di ricollocamento all’interno del territorio europeo con il sistema delle quote, mai decollato, oppure di presentare una richiesta di protezione sul territorio italiano. A questo scopo erano state selezionate alcune strutture già esistenti e attive, tra cui il centro di identificazione di Lampedusa, che il 21 settembre 2015 aveva avviato in via sperimentale le operazioni.

Secondo Bruxelles, l’approccio hotspot doveva prevedere una permanenza molto breve, 48 ore al massimo, per l’identificazione e lo smistamento delle persone nei centri di accoglienza per richiedenti asilo oppure per essere rimpatriati da Palermo o ancora per essere trasferiti nei centri di detenzione amministrativa, chiamati Centri di identificazione ed espulsione (Cie) fino al 2017, quando vennero trasformati in Cpr, Centri per il rimpatrio. L’hotspot «dovrebbe essere un punto di semplice identificazione e smistamento delle persone – spiega il garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma – mentre le persone rimangono più a lungo, soprattutto quelle più vulnerabili». L’avvocato Gennaro Santoro, che ha curato il dossier e ha visitato il centro per raccogliere le testimonianze, racconta che «si sono riscontrate permanenze anche di due mesi all’interno dell’hotspot, anche di nuclei familiari con minori, oppure di minori stranieri non accompagnati, o di altri soggetti vulnerabili, come persone con gravi patologie. Abbiamo segnalato anche la situazione di donne tenute in situazioni promiscue insieme a uomini, tant’è vero che ci è stato riportato un tentativo di stupro da parte di un uomo su una donna che era lì con un nucleo famigliare e anche una bambina di 8 anni che ha assistito a questo tentativo di stupro e logicamente ha avuto una crisi di panico».

Prima della sua trasformazione in hotspot, la struttura di Lampedusa era un Centro di primo soccorso e accoglienza, istituita nel 2006 e dedicata all’accoglienza dei migranti intercettati e soccorsi in mare prima di procedere al trasferimento presso i diversi centri. Al di là del nome, tuttavia, ben poco è cambiato e l’hotspot si trascina dietro sempre le stesse problematiche. «Se dobbiamo individuare un cambiamento – chiarisce Gennaro Santoro – possiamo dire che le condizioni sono peggiorate».

Gli hotspot sono pensati come luoghi non detentivi in cui si dovrebbe procedere all’identificazione entro le 48 ore successive allo sbarco, per cui non è prevista nessuna forma di convalida da parte del giudice. Tuttavia, questo non corrisponde a una struttura aperta, bensì a un luogo chiuso, da cui è permesso uscire soltanto in specifiche fasce orarie. Inoltre, gli avvocati hanno denunciato il fatto che sia stato loro negato il diritto d’accesso nella struttura nonostante fossero in possesso delle nomine formali da parte degli ospiti. «Questi luoghi – afferma Santoro – violano l’habeas corpus. Si può parlare di una cornice legale inesistente e quindi di una illegittimità del trattenimento».

Oltre alle palesi violazioni delle norme esistenti, il problema va cercato anche nella distanza tra l’idea astratta di hotspot e la sua concreta esecuzione: da un lato l’impossibilità di procedere all’identificazione in 48 ore, dall’altro la presenza di altre prassi illegittime, meno evidenti: per esempio è raro che venga permesso di formalizzare la domanda di protezione internazionale. «Questo – chiarisce Santoro – significa che poi le persone trasferite, i cosiddetti migranti economici che hanno comunque manifestato la volontà di chiedere la protezione internazionale, non l’hanno potuta formalizzare». A seguito delle denunce e a causa delle condizioni disumane dell’hotspot, lo scorso 13 marzo il Ministero dell’interno ha infatti dichiarato la chiusura temporanea della struttura per effettuare lavori di ristrutturazione. I migranti presenti nella struttura sono stati quindi trasferiti, con un decreto di respingimento differito, nei Centri per il rimpatrio di Torino, Brindisi e Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza. Secondo le associazioni, anche questo regime di trattenimento va considerato illegittimo, perché giustificato dai provvedimenti emessi dal Questore di Agrigento che riteneva tutti gli ospiti del centro socialmente pericolosi sulla base della provenienza dall’hotspot. «Infatti, per i migranti trasferiti a Torino – ricorda Gennaro Santoro – il giudice di pace ha poi disposto la non convalida perché bisognava decidere caso per caso. Per l’incendio doloso è stato convalidato il fermo soltanto per una persona, quindi in ambito penale si è già capito chi è il maggior sospettato, mentre per la procedura amministrativa si è ritenuto che tutti fossero responsabili di questo incendio doloso: anche questo è contro la legge».

Una testimonianza sulle condizioni del centro di Palazzo San Gervasio è arrivata anche da Yasmine Accardo, della Campagna LasciateCIEntrare, che nelle scorse settimane è riuscita ad accedere al centro di Palazzo San Gervasio insieme all’europarlamentare Eleonora Forenza. Qui, tutti i cittadini di origine tunisina provenivano da Lampedusa, dove erano stati trattenuti mediamente per 66 giorni, e dove, pur avendo fatto richiesta, non avevano potuto formalizzare la domanda di protezione.

La deputata del Partito Democratico Giuditta Pini ha annunciato che i temi presentati nel dossier saranno oggetto di interrogazioni parlamentari rivolte al ministro dell’Interno e a quello della Giustizia da parte dei gruppi alla Camera di Liberi e Uguali e del Pd, con l’obiettivo di correggere gli errori. Tuttavia, non tutti pensano che queste strutture siano riformabili. «Credo – conclude Santoro – che l’approccio hotspot vada ripensata da capo. È giusto e doveroso immaginare di prestare soccorso e quindi anche prevedere delle strutture in cui farlo, e su questo l’Italia è sempre stata all’avanguardia, ma credo che vada completamente superato questo approccio e più in generale vada disciplinata in maniera diversa la possibilità della detenzione amministrativa di stranieri, perché dobbiamo sempre ricordarci che si tratta di persone che al massimo nel momento in cui non sono richiedenti asilo stanno violando delle norme amministrative e non penali, e quindi prevedere per violazione di norme amministrative, qual è l’ingresso irregolare, una detenzione, è da mettere del tutto in discussione».