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Le mine, guerra anche in tempo di pace

Quando si pensa alle mine antipersona viene naturale immaginare i campi minati al confine tra due Paesi in guerra, associando magari a questo pensiero l’immagine leggermente sbiadita dei conflitti del passato, da quelli dell’estremo Oriente ai Balcani degli anni Novanta. Quello che però spesso sfugge è quanto gli ordigni collocati nel terreno o sulle strade durante una guerra rimangano lì e continuino a causare morti e feriti anche anni dopo la firma dei trattati di pace. L’errore di valutazione è ancora più evidente se si osservano i dati pubblicati ogni anno dalla Icbl, la International Campaign to Ban Landmines, premio Nobel per la Pace nel 1997.

Secondo il Landmine Monitor 2017, almeno 8.605 persone sono state uccise o gravemente ferite nel solo 2016 a causa dell’esplosione di mine, anche improvvisate, submunizioni inesplose e altri ordigni bellici. È un dato in crescita rispetto al 2015, che segue una tendenza attestata sin dal 2000 e che ha subito un’accelerata a partire dal 2014, con l’aggravarsi della crisi siriana e irachena, e con lo scoppio l’anno successivo della guerra in Yemen. Circa l’80% delle vittime e dei feriti, inoltre, sono civili. Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna italiana contro le mine Onlus, ramo italiano della campagna globale, spiega che «questi ordigni possono rimanere attivi sotto il terreno per più di 50 anni».

Per questi motivi l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con una decisione presa l’8 dicembre 2005, ha istituito per il 4 aprile di ogni anno la Giornata internazionale per la consapevolezza sulle mine e l’assistenza all’azione contro le mine. L’edizione 2018, la tredicesima, è stata introdotta dalle parole del Segretario Generale delle Nazioni unite, António Guterres, che ha affermato che «un volume senza precedenti di mine antiuomo e armi inesplose contamina le zone rurali e zone di guerra urbana, mutilano e uccidono civili innocenti molto tempo dopo la fine del conflitto.

Le strade bonificate dagli ordigni esplosivi consentono alle forze di pace di pattugliare e proteggere i civili. Quando i campi vengono ripuliti e le scuole e gli ospedali sono protetti, la vita normale può ricominciare. La Mine Action è vitale». Se da un lato, infatti, il problema delle mine e delle cluster bomb non si esaurisce con la fine di un conflitto, dall’altro le sue ricadute sociali e sanitarie non si esauriscono con l’esplosione. Quando si sopravvive allo scoppio di una mina o di una submunizione di un ordigno a grappolo, si va incontro alla perdita di uno o più arti e quella ferita, che spesso diventa amputazione e perdita, dura per sempre, ben al di là anche dell’eventuale bonifica dei terreni. Kamel Saadi, sopravvissuto allo scoppio di una mina in Palestina negli anni Settanta, oggi fondatore e direttore dell’associazione LifeLine, che in Giordania aiuta chi ha perso un arto a procurarsi la protesi, prendersene cura e ricostruire la propria vita, chiarisce che «il problema non è la gamba. O meglio, non è soltanto la gamba: con la protesi non si risolve il trauma lasciato dalla mina e quello dell’amputazione, così come non si ritorna alla vita di prima. Quello è solo l’inizio».

Ciò che arriva dopo è un percorso che va affrontato in termini di salute pubblica, di supporto medico e psicologico. «L’assistenza ai sopravvissuti da incidente da mina antipersona è uno dei pilastri di quella che chiamiamo Mine Action», racconta ancora Schiavello. «Sono le fasi del soccorso medico, ma anche del reinserimento socioeconomico. È un problema che arriva a toccare anche la convenzione sui diritti delle persone con disabilità, per cui quando si opera in questi Paesi bisogna poi mettere in connessione queste convenzioni e cercare di valorizzare quelli che sono i punti d’incontro proprio per creare non solo un’immediata risposta alle persone che hanno bisogno, ma anche quel supporto di civiltà giuridica che alcuni Paesi che hanno vissuto la guerra hanno poi creato nel tempo grazie a delle associazioni di vittime civili di guerra».

Negli ultimi anni, alle mine e ai proiettili inesplosi si sono aggiunti nei territori di conflitto anche le trappole esplosive lasciate appositamente lì per colpire i civili quando rientrano nelle città che le forze belligeranti abbandonano. Spesso somigliano a dei giocattoli, al punto che i bambini rappresentano il 40% del totale delle vittime causate da questo genere di ordigni. «È un grande problema umanitario – prosegue Giuseppe Schiavello – e la giornata è dedicata in parte anche ad accendere i riflettori su questo problema, considerando poi che lo sminamento e la bonifica umanitaria è anche di un problema di sviluppo economico: non si minano solo le case, ma anche le strade, le scuole, le risaie, gli stessi boschi dove le persone vanno a cercare legna. Una volta qualcuno mi ha detto che per chi vive in un terreno minato il rischio statisticamente potrebbe essere pari a quello di un incidente in auto, ma in realtà è molto più simile a quello che per noi è aprire il frigorifero per prendere una bottiglia d’acqua o recarsi alla caldaia per accenderla perché fa freddo. È il gesto quotidiano che viene colpito, è l’impossibilità di avere una vita normale».

Nei primi anni Novanta l’Italia era tra i principali produttori di mine antipersona, ma con la moratoria unilaterale sulla produzione e il commercio, adottata nel 1994, ha modificato il proprio orientamento in modo radicale, diventando oggi un Paese in prima linea per mitigare gli effetti di questa “guerra sporca”. La Campagna Italiana Contro le Mine, insieme all’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra, ha deciso quindi di rilanciare nella giornata di oggi la richiesta ai Presidenti della Camera e del Senato e ai parlamentari della XVIIIª Legislatura di approvare urgentemente la legge che proibisce investimenti finanziari in aziende internazionali ancora coinvolte nella fabbricazione di ordigni banditi dal nostro Paese. Il provvedimento era già stato approvato in via definitiva da entrambi i rami del Parlamento durante la precedente legislatura, ma non è potuto entrare in vigore per un mancato coordinamento con la legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Oslo sulla messa al bando delle munizioni a grappolo del maggio 2008. L’errore era stato corretto dalla Commissione Finanze e Tesoro, ma la norma è rimasta in sospeso a causa dello scioglimento delle Camere. «Speriamo – conclude Schiavello – che questa legge venga votata subito all’unanimità per tagliare ancora un sottile filo rosso di sangue che permette dei profitti che non sono etici e che secondo noi sono già vietati dalla nostra legge di ratifica della convenzione».