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Al di là del mito

Prosegue la serie di articoli dedicati a Martin Luther King a 50 anni dalla morte, avvenuta proprio oggi, 4 aprile, nel 1968. Dopo l’articolo di ieri ad opera del pastore Italo Benedetti oggi è il turno, oltre all’articolo proposto qui di seguito, anche di un’intervista di Marta D’Auria a David Goatley, direttore esecutivo della Lott Carey International e membro del Consiglio direttivo della National Association for the Advancement of Coloured People, la più antica organizzazione per i diritti civili degli afroamericani. Buona lettura!

Subito dopo il 4 aprile 1968, giorno in cui Martin Luther King fu assassinato sul balcone di un motel di Memphis (dal 1991 Museo nazionale dei diritti civili), ha avuto inizio quel processo di canonizzazione che l’ha trasformato nel martire-simbolo della lotta contro il razzismo e la discriminazione razziale, costruendo un personaggio mitico epurato dagli aspetti più in contrasto con l’immagine del coraggioso e integerrimo eroe americano.

La storia non è nuova. Per disinnescare le forme più esplosive di una protesta, il metodo più efficace è stato spesso quello di eliminare il suo leader e farne un martire. Così è avvenuto per Martin Luther King, ormai entrato nel ‘martyrologium americanum’ insieme a John Kennedy e suo fratello Robert (assassinato il 5 giugno 1968, due mesi dopo King).

King, come icona nazionale e simbolo del movimento per i diritti civili, è stato e continua ad essere al centro del processo d’integrazione di quel movimento nella memoria collettiva americana. Facendone l’unico leader del movimento si è sminuito il ruolo degli altri leader e, contemporaneamente, offuscato il fatto che si era trattato di un movimento di base con molte ramificazioni.

 

La costruzione del mito di King come apostolo della lotta nonviolenta contro la discriminazione razziale che subisce il martirio proprio a causa di questa lotta è servita a più scopi: accentuando l’aspetto utopico e nonviolento del suo messaggio, si è data minore importanza agli aspetti più fortemente critici della società e della politica americana e, inoltre, lo si è usato per offuscare la memoria di Malcolm X, che aveva sottolineato proprio quegli aspetti.

Per raggiungere questi obiettivi, era necessario congelare la figura di King alla marcia su Washington dell’agosto 1963 e al discorso pronunciato in quell’occasione, famoso soprattutto per la parte finale. Quel discorso, infatti, è ormai universalmente noto come “I Have a Dream” e viene sempre citato e riproposto come il culmine della vita e del messaggio del pastore battista. Molto spesso, da quel discorso si passa direttamente alla sua morte, come se nei quasi cinque anni che vanno dal 28 agosto 1963 al 4 aprile 1968 non sia avvenuto nulla sul quale valga la pena soffermarsi.

Per annullarne gli aspetti più radicali, era necessario fissare l’immagine di King sull’ultima parte di quel discorso perché, mentre la prima parte denunciava come incubo la condizione intollerabile di milioni di neri che vivevano in «un’isola di povertà» ed erano in «esilio nella loro terra», l’ultima rispecchiava ancora la fiducia nell’American dream e lo esaltava, ancorché nella sua incompiutezza: nelle parole di King risuonava alto e coinvolgente l’appello a quel sogno americano che non si era ancora avverato, ma avrebbe potuto esserlo. Non avrebbe potuto non esserlo, perché questo è il destino manifesto della nazione americana.

Non bisogna dimenticare che la componente utopica è presente dalle origini nell’ideologia americana; il sogno di una società che offre sempre nuove possibilità ha resistito all’erosione della storia, allo sterminio dei nativi, alla schiavitù dei neri e alla Grande Depressione. Anche quando il sogno si è rivelato un incubo non ha mai perso la sua capacità di suscitare le speranze di chi voleva continuare a credere in un’America che poteva essere diversa da quella che era.

 

Di quel sogno c’è sempre meno traccia negli anni che intercorrono tra il discorso di Washington e la morte di King, perché la sua protesta si era orientata sempre di più verso una rigorosa denuncia del legame tra razzismo, povertà e ingiustizia sociale. La memoria di King andava quindi costruita sulla base di “I Have a Dream”; su questa premessa si fonda l’immagine convenzionale che viene presentata nelle ricorrenze del Martin Luther King jr. Day, festa nazionale (federal holiday) istituita nel 1983 dal Congresso degli Stati Uniti durante la prima presidenza Reagan e celebrata dal 1986 il terzo lunedì di gennaio.

Il pensiero di King fu in continua interazione con la realtà nella quale operava e King adattò e rielaborò costantemente il suo messaggio, che fu contrassegnato sia da una sostanziale continuità data dalla ricerca della giustizia sia da modifiche e ampliamenti della prospettiva originaria.

Nel discorso del 5 dicembre 1955, con il quale iniziò a guidare il boicottaggio del sistema di trasporto urbano a Montgomery, aveva affermato che «la grandezza della democrazia americana risiede nel diritto di protestare per le cose giuste» e questa convinzione lo accompagnò per tutta la sua breve vita. Se a Montgomery era giusto protestare contro la segregazione razziale, negli anni seguenti la sua protesta nonviolenta si concentrò contro il razzismo e la mancata attuazione dell’abolizione di ogni forma di segregazione razziale, sulla base della sentenza emessa dalla Corte Suprema nel maggio 1954. Questa fase culminò nella marcia su Washington del 1963, che era stata organizzata come «a march for jobs & freedom». 

Nel 1964, partecipò alla “Mississippi Summer”, durante la quale furono uccisi tre giovani neri. Nel febbraio 1965 andò a Selma, nell’Alabama, dove venne nuovamente arrestato e per questo non poté incontrarsi con Malcolm X, il leader dei musulmani neri che in precedenza aveva criticato la linea nonviolenta di King ma stava rivedendo le proprie posizioni. Dal 21 al 25 marzo, King partecipò alla marcia da Selma a Montgomery, la città dove aveva avuto inizio dieci anni prima la sua lotta nonviolenta contro la segregazione razziale; e qui rivolse di nuovo il suo appello a lottare per la realizzazione del sogno americano: «Let us […] continue our triumphant march to the realization of the American dream».

Nell’agosto dello stesso anno, ebbe inizio la rivolta di Watts. King aveva ormai deciso che non poteva evitare il confronto con la realtà dei ghetti urbani e che doveva raccogliere l’eredità di Malcolm X, il leader dei musulmani neri che era stato ucciso il 21 febbraio. Per questo andò subito a Watts e, pochi mesi dopo, a Chicago, dove era scoppiata un’altra rivolta.

Infine, dagli inizi del 1967, arrivò il tempo di «rompere il silenzio» sulla guerra del Vietnam e di denunciare il militarismo che pervadeva la società e la politica americana.

Nei suoi discorsi contro la guerra e la politica estera degli Stati Uniti non compariva più il sogno americano, trasformato di nuovo in un incubo da quella guerra per la quale «i poveri dell’America [stavano] pagando il doppio prezzo di speranze frantumate all’interno e di morte e corruzione in Vietnam», ma un appello accorato ad agire per la pace e la giustizia. Nei villaggi dei contadini distrutti dal napalm il sogno si era infranto ancora una volta.

Ma c’era «qualcosa di ancora più inquietante», cioè il fatto che «la guerra del Vietnam non è che il sintomo di una malattia molto più profonda dello spirito americano. […] Una nazione che continua anno dopo anno a spendere più per la difesa militare che per programmi di promozione sociale sta andando verso la morte spirituale».

 

L’ultimo King continuò e intensificò anche la lotta per i diritti dei lavoratori, che aveva contrassegnato tutta la sua vita pubblica dal boicottaggio degli autobus di Montgomery nel 1955. Quando fu ucciso si trovava a Memphis per sostenere lo sciopero dei netturbini perché era convinto che «la lotta per la giustizia sociale e la lotta per la giustizia razziale facessero parte della stessa lotta per la libertà, la dignità e l’umanità».

A fronte di questa realtà, si continua a costruire il mito di King, con il sostegno interessato dei suoi eredi che, subito dopo la sua morte, crearono il King Center di Atlanta e, nel 1982, ottennero il diritto di sfruttare in esclusiva la sua immagine a fini commerciali.

L’ultimo esempio di questa commercializzazione risale al 4 febbraio 2018, in occasione del Super Bowl, il più importante evento sportivo degli Stati Uniti. Durante la diretta dell’incontro tra i Philadelphia Eagles e i New England Patriots, è stato trasmesso uno spot pubblicitario di 60 secondi della FCA (Fiat Chrysler Automobiles) che, per vendere un pick-up, utilizzava alcune frasi del sermone (“Drum Major Instinct”) tenuto da King in una chiesa battista di Atlanta il 4 febbraio 1968. Paradossalmente, nella parte omessa di quel sermone, King metteva in guardia dal pericolo di spendere oltre le proprie possibilità per “andare in giro in Cadillac e Chrysler”.