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Se il granello di frumento non muore

«Non so ora che cosa accadrà. Abbiamo dei giorni difficili davanti a noi. Ma ora non importa. Perché sono stato sulla cima della montagna. E non mi interessa. […] Voglio solo fare il volere di Dio. E Dio mi ha permesso di salire sulla montagna. E di là ho guardato. E ho visto la Terra Promessa. Forse non ci arriverò insieme a voi. Ma voglio che questa sera voi sappiate che noi, come popolo, arriveremo alla Terra Promessa. E questa sera sono felice. Non ho paura di nulla. Non ho paura di alcun uomo, i miei occhi hanno visto la gloria del Signore che viene». Non si può prescindere da queste parole rievocando l’assassino del pastore Martin Luther King Jr. Sono state le sue ultime. Rese profetiche perché poche ore dopo – la sera del 4 aprile 1968 – egli veniva ucciso sul ballatoio del Motel Lorraine di Memphis, Tennessee, da alcuni colpi di arma da fuoco. La morte di Martin Luther King ci conduce subito ad affrontare il tema del significato di questa vita. Da un lato si deve dire che la storia e la cronaca non hanno registrato la vittoria della sua lotta. Il problema razziale – la contraddizione di fondo della democrazia americana, il peccato originale della società nordamericana, il vulnus della cultura bianca statunitense – non è risolto e il cammino da fare appare ancora lungo. D’altro canto, si deve anche affermare che la democrazia, la società, la cultura americane sono profondamente cambiate, tanto da essere in grado di eleggere un afroamericano alla presidenza della Repubblica (le immagini di quel giorno ci mostrarono le lacrime di Jesse Jackson, colui aveva sorretto con le sue braccia la caduta del corpo di King). Tanto da riservare a King l’unica festività civile americana dedicata ad una persona, onore che non è stato concesso né a Washington, né a Lincoln. Tanto da dedicargli un monumento accanto all’obelisco della Mall di Washington davanti alla Casa Bianca.

Da dove proviene Martin Luther King? Alcune risposte a questa domanda potrebbero apparire ovvie: una radice fondamentale è la negritudine. Anzi, la negritudine nel Sud razzista. Lui stesso racconta lo shock per come venne a contatto con questa realtà – e quanto fu dolorosa – quando a otto anni dovette incomprensibilmente rinunciare all’amicizia di un bambino bianco vicino di casa. La loro età non permetteva più una amicizia che cominciava a diventare socialmente sconveniente. Fu il padre, pastore battista anche lui, che dovette non solo consolarlo, ma anche svezzarlo a questa nuova realtà del suo futuro: la segregazione. Non si può omettere di citare, tra le radici di King, la chiesa. Certo, la chiesa “evangelica”, la sua dottrina della grazia, la centralità della Bibbia, ma soprattutto la chiesa “nera”, lo Spiritual, quel connubio di fede e di anelito alla libertà che aveva creato comunità dove si predica, si prega e si canta, ma anche dove ci si incontra per affrontare le questioni che riguardano la vita della comunità sociale, il ragazzo arrestato, la polizia violenta, il datore di lavoro prepotente. È lì che nacque il campione dei diritti civili. Quando Rosa Parks si rifiutò di lasciare il posto riservato ai bianchi sull’autobus, furono le chiese che affidarono a King il compito di guidare il movimento, e furono le chiese ad ospitare gli incontri organizzativi delle azioni di protesta, tra cui uno sciopero che durò un intero anno, durante il quale nessun nero, e nessun bianco solidale, salì più su un autobus, determinando il fallimento della compagnia di trasporti e la ribalta mediatica del movimento e del suo leader. Un’ulteriore radice è la formazione culturale che King ha ricevuto. Martin Luther King Jr. era un pastore battista, con una formazione culturale e teologica d’eccellenza, compreso un dottorato. Il ministero pastorale, nella comunità afroamericana, include, implica, la leadership. Questo è vero per ogni pastore, che non è solo un predicatore, ma è soprattutto il portavoce della comunità nera, è conosciuto in questura, in tribunale e nelle redazioni. Però la formazione culturale media del pastore afroamericano negli anni ’50 era spesso non solo limitata, ma anche teologicamente conservatrice. Martin Luther King Jr. ricevette una formazione non solo d’eccellenza, ma anche liberale, aggiornata, progressista, conseguita all’Università di Boston, nel Nord liberale. King aveva la formazione per diventare un leader nazionale e una capacità di riflessione filosofica fuori del comune. Il suo discorso più noto, «I Have A Dream» – Io ho un sogno – è considerato il discorso più influente del XX secolo, è parte del programma scolastico e ogni studente deve conoscerlo a memoria.

Ci sono tre persone che non è possibile non nominare quando si parla di Martin Luther King Jr. La prima è Mohandas Gandhi. Gandhi era Hindu, leader della lotta pacifica di liberazione dell’India dal colonialismo britannico. King volle conoscerlo personalmente e disse apertamente che nella lotta per i diritti civili, la motivazione veniva da Cristo e il metodo da Gandhi. La seconda persona è Malcom X, convertito all’Islam, che all’inizio sembrava un personaggio lontano da King, critico verso il cristianesimo, giudicato complice del segregazionismo, e critico del metodo pacifista al quale contrapponeva il metodo dei Black Panther. La lotta per i diritti civili ha in seguito avvicinato i due leader, specialmente quando King sollevò i problemi strutturali della società americana che creavano non solo la segregazione, ma anche la povertà di milioni di neri e bianchi, o la contraddizione della guerra del Vietnam. King venne progressivamente abbandonato dai bianchi che erano stati solidali con il movimento dei diritti civili, i quali cominciavano a considerarlo un radicale. Per questi King scrisse una «Lettera dal carcere di Birmingham» dove spiegava perché i neri non potevano aspettare per ottenere i loro diritti. Questo isolamento può essere considerato la motivazione principale dell’assassinio di King. La terza persona è Coretta Scott, moglie di Martin. Coretta era lei stessa un’attivista del movimento e colei che raccolse la leadership del movimento dopo la morte del marito. Sono vere le notizie che Martin, in più occasioni, tradì la moglie con altre donne.

Martin Luther King Jr. ricevette il Premio Nobel per la pace nel 1964. A cinquant’anni dalla morte possiamo dire di aver imparato almeno questa lezione da lui, cioè che lo scontro sociale può avere un profondo valore spirituale se viene affrontato con la «Forza d’Amare». Ma, come parola conclusiva, vorrei ricordare il suo concetto di «Beloved Community», di Comunità prediletta, che trovo l’idea più straordinaria e utile di King. La desegrazione per King non era un fine, ma un passo intermedio verso una visione più grande: «Il fine non è la riconciliazione; il fine non è la liberazione; il fine è la creazione della Comunità prediletta». Si tratta di una comunità civile nella quale persone di diverse provenienze si riconoscono come interconnessi e comprendono che il benessere individuale è inestricabilmente connesso al benessere degli altri. Il fine di ogni cambiamento sociale non è solamente la tolleranza, e neppure il riconoscimento dei diritti umani e civili, o il progresso delle condizioni economiche; questi sono passi necessari, ma non sufficienti al progresso umano. Non ci si può fermare finché non si supera il pregiudizio e la diffidenza che dominano la natura umana. La strada verso la Comunità prediletta è la riconciliazione di persone che sono state in conflitto ed è fondata su un profondo senso di interconnessione umana, di armonia trascendente e di amore tra tutte le persone umane.