villagers_scour_rubble_for_belongings_scattered_during_the_bombing_of_hajar_aukaish_-_yemen_-_in_april_2015

Yemen, una nuova normalità di guerra

Entrata nel suo quarto anno, la guerra scoppiata in Yemen nel marzo del 2015 sembra lontana da qualunque conclusione. La catastrofe umanitaria in corso è tale da essere ritenuta la più grave crisi al mondo: sono oltre 22 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria, la metà delle quali sono minori. L’ultimo rapporto di Unicef, dal titolo If not in School, evidenzia che l’istruzione di poco meno di cinque milioni di bambini è a rischio, mentre l’accesso all’acqua potabile e a minime condizioni sanitarie non è garantito per 16 milioni di yemeniti. Quello che era già il Paese più povero della Penisola arabica prima dell’escalation di tre anni fa, ora è un Paese rassegnato, in cui la guerra sembra ormai diventata parte di una “nuova normalità”, testimoniata dal fatto che il conflitto sia dato per scontato. Per Laura Silvia Battaglia, giornalista che ha vissuto per anni in Yemen, «essere intrappolati in un Paese da cui non si può uscire, da cui si cerca di uscire ma non si può, significa essere in una condizione per cui la popolazione civile che non prende parte ad attività di nessuna delle due fazioni si trova alternativamente ad avere una volta una bomba in testa dei sauditi, un’altra volta un mortaio degli Houthi. Francamente l’unica cosa da fare è sperare che tutto questo finisca». Tuttavia, oggi la speranza che ci si avvicini alla fine sembra non esserci. Nel Paese la “nuova normalità di guerra” porta con sé un forte sentimento di abbandono, una sensazione che ha come ulteriore conseguenza un sempre più profondo distacco tra la popolazione civile e le forze che combattono sul territorio. «Le milizie – spiega Battaglia – perdono consenso, perché l’instabilità prolungata di questa che ormai è una guerra di logoramento crea ulteriore sconforto soprattutto nelle giovani generazioni».

Proprio mentre le organizzazioni umanitarie internazionali segnalavano l’ingresso nel quarto anno di guerra in Yemen, sul terreno lo scontro tra le forze in conflitto procedeva come al solito, pur ottenendo una eco superiore proprio per la concomitanza con l’anniversario e anche in virtù di uno spostamento geografico che ha fatto sì che le emittenti più vicine all’Arabia Saudita, che controllano interamente la comunicazione nell’area, come al-Arabiya, ne parlassero.

Nella notte tra il 25 e il 26 marzo i ribelli Houthi hanno lanciato sette missili contro la capitale saudita Riyadh e altre città dell’Arabia Saudita, uccidendo un civile di nazionalità egiziana. Secondo il governo saudita i sette missili erano stati intercettati e distrutti, ma una scheggia ha colpito un civile. «Tutto – constata Laura Silvia Battaglia – sta procedendo come negli ultimi mesi. Il fatto che un altro razzo sia stato lanciato su Riyadh significa che è ormai certo che gli Houthi, che non devono essere solo pensati come la longa manus dell’Iran, abbiano il controllo delle strumentazioni per lanciare questi missili». I razzi usati oggi dai ribelli non sono tuttavia una novità di questi ultimi anni: la gran parte delle armi presente nel Paese, infatti, vennero acquistati dall’ex presidente Ali Abdullah Saleh, deposto nel 2011, che si rifornì da ogni parte, compresi gli Stati Uniti.

In uno Yemen in cui quello delle armi è ormai il principale linguaggio che regola le relazioni, la strada della diplomazia è stretta, come testimoniato dal fatto che tutti gli inviati speciali delle Nazioni Unite in questi anni si sono dimessi. «Tra l’altro – spiega Laura Silvia Battaglia – l’ultimo non era un occidentale, ma era un arabo, quindi teoricamente era parte più o meno della stessa cultura». «Il vero problema – aggiunge – che più volte è stato sollevato da molti yemeniti che hanno partecipato al dialogo internazionale per riuscire a risolvere la crisi, sia in Svizzera che in Kuwait, è che ogni volta che c’è una possibile avvicinamento tra le due parti questo avviene tagliando fuori alcune regole tribali e alcuni equilibri tribali. Non è possibile risolvere questo conflitto così come non è possibile risolvere per esempio i conflitti in Libia se lo si fa su un tavolo in maniera asettica e senza rispettare i passaggi che quella cultura impone». Tuttavia, questa strada finora non è mai stata percorsa e non ci sono indizi che il nuovo inviato speciale, il britannico Martin Griffiths, insediato il 19 marzo e in visita a Sana’a sabato 24, possa segnare un’inversione di rotta.

Se per chi è bloccato nel Paese lo sconforto e la paura sono i sentimenti dominanti, per coloro che invece sono stati costretti a lasciare lo Yemen o sono rimasti bloccati all’esterno a causa dello scoppio della guerra lo sguardo è differente: «chi sta fuori – spiega Laura Silvia Battaglia, che vive questa condizione – lo sguardo esterno è quello di chi ha il vantaggio di essersi tendenzialmente salvato, ma anche quello di poter aiutare le persone della propria famiglia che sono rimaste intrappolate. C’è un atteggiamento forse più analitico, più lontano, perché quando si è lontani è come se si usasse il cannocchiale, non si è immersi in questa realtà». Dall’esterno, in particolare, l’evoluzione del conflitto sembra più chiara, anche perché meno toccata dalla propaganda armata interna. «Una delle problematiche più grandi – conclude Battaglia – è vedere depredato un Paese che potenzialmente ha delle potenzialità enormi. Non parlo di idrocarburi, ma di una gioventù di persone comunque scolarizzate, parlo di arte, di cultura, di turismo, che vede questo Paese depredato dai politici nei quali aveva in parte creduto, quindi dall’interno, e pure depredati dall’esterno, basti pensare a quello che sta succedendo nell’isola di Socotra, ormai sede dell’esercito degli Emirati Arabi Uniti. Questa dall’esterno è una fonte di grande sofferenza».