stele

La storia è anche una questione di valori

Non ho mai condiviso due forme di retorica che spesso si esercitano attorno alla storia: la pretesa di darle uno statuto di scientificità, e la scandalizzata denuncia del fatto che la storia contemporanea sarebbe scritta dai «vincitori».

La storia, specie quella contemporanea, ha lo scopo di proporre un’interpretazione che dia senso alla ricostruzione di un passato che altrimenti resterebbe confuso e incomprensibile. L’uomo è tale da quando cerca un senso nelle cose che osserva, soprattutto nelle gesta di chi l’ha preceduto, le cui conseguenze ancora hanno influenza sul presente. Certamente la storia deve essere scritta con onestà e capacità di ben documentarsi per evitare contraddizioni con i dati di fatto appurati (date, documenti, episodi, circostanze, ecc.). Detto ciò, tuttavia, non si giudica l’esito di un’opera storiografica dal grado di raggiungimento di un’utopistica oggettività, ma dalla capacità di rendere comprensibile una narrazione del passato alla luce di un sistema valoriale condiviso.

La storia di vicende di contrapposizione non lontane nel tempo comporta una divisione fra coloro che si sentono eredi di una delle parti in conflitto e coloro che si sentono eredi di quelle contrapposte, e di solito la divisione cessa solo per ragioni anagrafiche. È possibile che determinate questioni e tendenze sociali continuino a ripresentarsi anche alle generazioni successive, pertanto è interesse di taluni cercare di modificare il senso comune che si basa sull’educazione impartita nelle scuole e sul discorso pubblico, ispirati alle interpretazioni del passato recente accettate fino a quel momento.

Le contese su certe ricostruzioni del recente passato, e le proposte di riformularle, non riguardano pertanto uno statuto di oggettiva scientificità, ma, al netto del loro grado di accuratezza e onestà documentale, i valori che sottendono la visione del mondo che le ispira. Ciò spiega i divisivi tentativi di riscriverle.
È vero che anche nel campo della storia antica è più o meno facile distinguere l’appartenenza di opere ed autori a determinate scuole interpretative, ma di solito un nuovo libro sulle antiche civiltà mesopotamiche provoca polemiche solo fra addetti ai lavori, non nell’opinione pubblica, che a stento è capace di intenderne i termini.

Sono convinto che le operazioni più o meno esplicite volte a re-interpretare la storia della II Guerra mondiale e dei regimi che la provocarono, in atto da circa tre decenni, sono particolarmente pericolose. Non ho problemi ad ammettere che i principi fondamentali su cui si basano la nostra Costituzione e la Legge Fondamentale della Repubblica Federale tedesca sono gli stessi a cui si ispirarono coloro che combatterono e «vinsero» la II Guerra mondiale, escludendo i teatri bellici dell’Europa orientale. È proprio il loro modo di concepire la democrazia e le libertà fondamentali ad essere alla base del modo in cui si è vissuto, in seguito, nell’Europa occidentale e del racconto dei fatti che portarono a un nuovo inizio.

La storia revisionista è spesso ambigua nei riguardi di quei valori, anzi occorre interrogarsi sui valori che sottendono alla sua visione del passato: ciò che è in gioco è l’educazione delle giovani generazioni e l’orientamento del discorso pubblico.

A certe operazioni storiografiche sono da accostare i sempre più frequenti piccoli gesti di amministrazioni pubbliche, ispirate da lobby private, chiaramente miranti a cambiare la percezione del nostro passato, forse in previsione di svolte nel nostro futuro.

Le ragioni di coloro che si appellano alla retorica per cui «tutti i morti sono uguali» spesso rispondono a una logica di riscrittura della storia recente che cerca di cambiare l’orientamento valoriale diffuso, non tanto di fare giustizia di una pretesa «prepotenza» dei vincitori.

Il recente episodio della stele posta alla grotta Foltin a Montecassino (e rimossa in queste ore dopo le polemiche scoppiate), accomunando nel ricordo i caduti della I Divisione paracadutisti dell’esercito tedesco che vi combatté contro gli Alleati, va subdolamente in questa direzione. Sotto la stilizzazione di un paracadute, chiaramente allusiva, vi si legge: «In Memoria e Monito di tutti i Soldati caduti nel 1944 durante la sanguinosa Battaglia di Cassino e delle Vittime Civili di quella terribile guerra». Le argomentazioni di coloro che plaudono a questa iniziativa dell’amministrazione comunale, ispirata dall’Associazione albergatori del luogo e dei paracadutisti tedeschi in congedo, si appoggiano su una presunta nobiltà delle parole impresse e sul fatto che non si trattava di reparti di SS, ma dell’esercito regolare tedesco, i cui morti sarebbero quindi degni di essere onorati come tutti gli altri.
Costoro non considerano che in quel momento l’esercito tedesco occupava il suolo italiano contro la volontà del governo legittimo; inoltre, circostanza ancora più grave, dimenticano che l’esercito regolare tedesco, I Divisione paracadutisti compresa, non solo le SS, si rese colpevole di atrocità spaventose, contro civili inermi, durante tutto il corso della guerra, in tutta Europa, non solo in Italia.
La Wehrmacht non fu un esercito di patrioti che combatté per difendere il suo paese in una guerra scoppiata per un cieco destino, ma il più potente strumento, costruito sul fanatismo di una quasi intera generazione tedesca, utilizzato dal regime tedesco che quella guerra volle e fece scoppiare.

Innumerevoli prove attestano che la Wehrmacht, dal 1939 al 1945, compì atti così efferati e vergognosi da disonorare per sempre coloro che ne fecero parte, per non dire della sua bandiera a croce uncinata, la stessa dei reparti delle SS dei quali gli attuali revisionisti della storia «dei vincitori» non trovano (per ora) il coraggio di difendere la memoria.