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16 marzo 1978. Il nostro 11 settembre

«Il 16 marzo del 1978 è stato il nostro 11 settembre», esordisce così Andrea Purgatori nell’intervista rilasciata a Riforma.it e Articolo 21.

Il programma Atlantide – trasmesso su La7, dove Purgatori è autore e conduttore – il 12 e il 14 marzo e in prima serata ha ripercorso, dal 1968 in poi, gli anni e i luoghi simbolo del rapimento di Aldo Moro che, dopo 55 giorni di prigionia, venne ucciso dalle Brigate rosse nel maggio 1978: via Fani, via Gradoli e via Caetani. In quest’ultima storica strada venne ritrovato il corpo dello statista politico proprio a due passi dall’allora sede «di Botteghe Oscure» del Pci e da quella della Dc, in Piazza del Gesù.

Purgatori, lei è un giornalista d’inchiesta di lungo corso e nel suo programma ha voluto proporre testimonianze e ricostruzioni sui misteri e i dubbi della vicenda, proprio per far emergere la verità dicibile e quella indicibile. Cosa si può ancora raccontare a quarant’anni di distanza da quei fatti?

«Quel giorno, il 16 marzo del 1978, e per qualche ora a seguire, credo che il nostro Paese abbia ritenuto di trovarsi di fronte ad una insurrezione, ad una guerra civile, o che potesse essere in atto un colpo di Stato. La gravità di quel rapimento e il livello dell’attacco messo in atto, indirizzato al cuore dello Stato, erano tali da far temere che potesse esserci un’offensiva alla nostra democrazia. Offensiva che, seppur circoscritta all’evento, era reale».

L’annuncio del rapimento venne diramato ovunque. Anche le scuole elementari, medie e superiori delle più piccole aree montane del Paese utilizzarono gli altoparlanti di servizio per informare insegnati e alunni in tempo reale. C’era davvero tanto sgomento e timore per l’accaduto…

«Certamente, fu una notizia sconvolgente. Oltre al rapimento furono uccise cinque persone, una vera e propria esecuzione. Morirono gli uomini della scorta, due carabinieri, Oreste Leonardi e Domenico Ricci e tre poliziotti che viaggiavano sull’altra auto: Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Poi, iniziarono i cinquantacinque lunghissimi giorni di agonia per Moro e per chi temeva per la sua  sorte; infine arrivò il tragico e beffardo epilogo con il ritrovamento del corpo in via Caetani.

Eppure, come ricorda la storia, più volte si poteva arrivare alla liberazione di Moro grazie a diverse rivelazioni, come il nome della via dell’alloggio dov’era detenuto il leader politico, ad esempio. Perché non si è mai arrivati a nulla?

«Nelle ore precedenti all’uccisione di Moro, il presidente della Repubblica Leone aveva deciso di concedere la grazia a due brigatisti detenuti in carcere per “motivi umanitari” per tentare l’ultima ed estrema possibilità di ottenere uno scambio. Sul piano delle indagini, credo che le motivazioni che portarono al “non fare” furono dovute all’inefficienza, all’incapacità di coordinare le ricerche; per un altro verso credo che invece siano stati fatti degli errori gravi, colpevoli, dolosi. Ricordo, ad esempio, quando giunse l’informazione relativa al possibile luogo di prigionia di Moro, “rivelata” in occasione, si disse, della famosa “seduta spiritica” e alla quale presero parte diverse autorità, tra le quali Romano Prodi. Il nome “Gradoli” poi reso noto dal professore nella sede di Piazza del Gesù, e “emerso” dal movimento del “piattino esoterico” – che ovviamente ritengo potesse essere un’indicazione fatta da chi era vicino alla Lotta armata o all’Autonomia, o giunta dalle stesse Brigate rosse, dal momento che vi era una seria spaccatura interna tra chi voleva tenere Moro in vita e chi no, dunque per interrompere il tragico conto alla rovescia –,portò le forze di polizia nel paese di Gradoli, nei pressi del lago di Bolsena tra le pecore e dunque lontano da Roma e da quella via Gradoli, che invece era il vero fulcro di tutta la vicenda. Altro esempio, l’inefficienza delle perquisizioni compiute allora dalle forze dell’ordine che forzarono diversi alloggi sfondandone la porta, cosa che non avvenne mai nell’appartamento giusto, ossia quello di via Gradoli».

Se vi sono state delle responsabilità colpevoli, a chi possiamo attribuirle?

«Credo che una responsabilità palese sia da attribuire ai partiti politici, che decisero la linea della fermezza. Anche se al loro interno, escludendo il partito socialista che propose la scelta di una trattativa, vi erano diverse anime e posizioni. Dunque, le responsabilità se le assunsero i partiti politici e i loro leader. Ciò che emerge da tutta questa storia è che nell’arco di quei 55 giorni, tanti giorni, qualcosa doveva e poteva essere fatto, e oserei dire, meglio di come è stato invece fatto. È incredibile pensare che, a soli due giorni dalla strage di via Fani la polizia bussò alla porta dell’abitazione di via Gradoli, ricognizione avvenuta su precisa segnalazione, proprio dove abitava Mario Moretti, il regista dell’operazione delle Br e dell’omicidio Moro, e che dopo la mancata e ovvia risposta dei brigatisti, nessuno sia tornato a controllare l’alloggio dove i rapitori tenevano recluso Moro».

La tesi di un complotto internazionale con l’aiuto dei servizi segreti alle Br per evitare il compromesso storico tra Dc e Pci è ancora attendibile?

«I brigatisti rossi l’hanno sempre negata, fortemente. E obiettivamente non sono mai state rinvenute prove per confutarne la tesi. I sospetti invece rimangono, ci sono stati interventi di varia natura nell’arco dei 55 giorni della prigionia di Aldo Moro per liberarlo, come ad esempio l’intervento di Arafat, leader dell’allora Olp e di altri paesi, tentativi che sarebbero potuti andare a buon fine. È difficile però, oggi, e alla luce delle indagini, dire che le Brigate rosse fossero eterodirette da qualcuno. Un’ombra, invece, e molto forte, rimane sulla figura di Mario Moretti che gli stessi brigatisti hanno sempre ritenuto una figura non chiara, non limpida, sia nei suoi contatti che nel suo comportamento all’interno della stessa organizzazione».

Giovanni Moro sostiene che suo padre è un fantasma inquieto, rimasto su questa Terra per bussare alle porte delle istituzioni, della politica e della società proprio per ricordare che non è stata fatta piena luce e giustizia sulla sua morte. È un’immagine che accompagna altre storie oscure d’Italia…

«Giovanni ha perfettamente ragione. Per quanto riguarda l’aspetto politico è possibile affermare che con il caso Moro sia stata persa, allora, la possibilità di dare a questo paese una governabilità con le due maggiori forze politiche popolari. Un’operazione che Moro tentava di portare avanti e che effettivamente vedeva la forte opposizione di due blocchi mondiali come quello americano e quello sovietico. Quella mancata esperienza politica italiana ha prodotto in seguito un “pasticcio” politico che ha sempre tentato di girare intorno a quell’idea originaria e mai attuata che fluttua nell’aria come un fantasma».

Purgatori, nel suo programma ha deciso di partire dal 1968, dieci anni prima del rapimento, perché?

«Proprio per far comprendere quale fosse il clima politico e sociale di quegli anni in Italia e perché si è arrivati a quel tragico epilogo. I giovani di oggi non hanno ricordi diretti; è dunque importante accompagnarli, far loro conoscere la storia contestualizzandone i fatti. Il tentativo del programma, sperando che sia riuscito, era quello di raccontare come la contestazione del 1968 e le lotte sindacali del 1969, la strage di Piazza Fontana, e altri fatti, abbiano sconvolto e mosso un paese intero che, non dimentichiamolo, era attraversato da fortissime correnti di violenza, di desideri di cambiamento. Il sequestro Moro e la sua morte sono sati una frattura, un tappo, un muro, nel percorso di quella storia».