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Gino Rossi, artista dimenticato

Gino Rossi è un artista di cui non conosciamo ancora bene le fasi iniziali di studio, ma di fatto è stato tra i più aggiornati della sua generazione. Si sa che nel 1905 aveva uno studio per lavorare a Ca’ Pesaro e che poi va a Parigi dove si aggiorna su tutta l’arte moderna francese. Quando rientra a Venezia, nel 1910, espone le sue prime mostre rivoluzionando completamente l’arte dei primi del ’900. Nonostante per le giovani generazioni sia un artista trascurato, ha avuto un approccio moderno, da giovane europeo ante litteram: lui parte e va a conoscere quelle che sono le correnti e gli artisti principali del tempo, in particolare segue le tracce del post-impressionismo e del crescente cubismo. Assume un tratto molto forte e una carica violenta nell’affrontare la figura umana: i soggetti non li sceglie dalla borghesia e dall’aristocrazia, ma dagli ultimi, dagli umili; fa tutto questo percorso molto velocemente per presentarsi come artista compiuto poco tempo dopo. Su Gino Rossi, malgrado siano passati gli anni e ci sia una certa bibliografia e letteratura artistica, ci sono ancora nuovi elementi da analizzare. Ne parla la curatrice della mostra, Elisabetta Barisoni.

Come mai Gino Rossi è stato così trascurato?

«Lui ha un percorso artistico fulminante: nel 1910 espone le sue prime opere ed è quasi un artista già maturo, infatti non abbiamo opere giovanili. Poi, com’è noto nella sua vicenda biografica, nel 1926 entra in un istituto psichiatrico dove rimane fino al 1947. Immaginatevi 21 anni in un istituto. Finita la guerra, alla Biennale del ‘48 viene dedicato un omaggio all’appena scomparso Gino Rossi e ad altri due artisti del rinnovamento veneziano e capesarino scomparsi nel ‘47: Vittorio Zecchin e lo scultore Arturo Martini. La biennale del ‘48 celebra questi maestri, tra cui Rossi, che però non produceva da vent’anni. Lui è stato importante per le generazione di quegli anni, per Vedova, Pizzinato e Guttuso, i giovani artisti italiani che stavano cercando di riorganizzare l’ambiente culturale del dopoguerra. Dopo l’ondata degli anni del dopoguerra, Gino Rossi a mio avviso non è più stato necessario studiarlo, non aveva più quel carattere di rottura; negli anni ‘70 è stato rimpiazzato dalle correnti dell’arte povera, dell’uso dell’oggetto, ambienti in cui la pittura di Gino Rossi non assume più una carica rivoluzionaria».

Abbiamo fatto riferimento a quelli che sono i suoi riferimenti artistici e le sue ispirazioni. Cosa riconosciamo in Gino Rossi di assolutamente personale?

«Innanzitutto l’approccio alla pittura, con questi colori espressionisti e abbaglianti. La cosa eccezionale nel vedere le opere di Gino Rossi è che sono praticamente irriproducibili nei cataloghi per via della sua capacità di interpretare il colore e tutte le sfumature che lui da ai suoi quadri. I soggetti sono assolutamente suoi: i volti degli ultimi con i volti scavati, brutti, di persone che sono lasciate ai margini della storia e che diventano protagonisti del suo racconto; i paesaggi lagunari, come quello di Burano nella sua asprezza invece che nel loro versante lirico. La laguna di Venezia è da sempre soggetto della rappresentazione più poetica, ma non nelle accese cromìe di Gino Rossi, nel modo in cui lui scava questa terra bruna. Sono soggetti se vogliamo banali, cumuli di sabbia, che divengono però soggetto caratteristico di un’analisi pittorica che conduce a un interesse introspettivo non trionfalistico».

Qual è stato il ruolo di Ca’ Pesaro nella carriera di Gino Rossi, così come in quella degli artisti e dell’arte italiana di quegli anni?

«È un ruolo di cui bisogna continuare a parlare. Dal lascito della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa nel 1898, Ca’ Pesaro si configura come uno degli esempi più importanti e più all’avanguardia di factory creativa. La duchessa struttura questo palazzo, che era il suo personale, pianificando tre spazi: al terzo piano lei desidera che il palazzo sia destinato ai giovani artisti, soprattutto quelli indigenti perché abbiano quegli studi, lavorino e possano vivere lì; un piano era per la collezione permanente d’arte moderna di Venezia che si stava creando in quegli anni e un piano per le esposizioni temporanee. Tre piani che rappresentano tre attività culturali estremamente interconnesse. Ormai ci sono pochissimi esempi nel mondo così virtuosi che permettono di avere una produzione contemporanea dal vivo, degli studi e la collezione che si crea con l’acquisizione di capolavori di grandi maestri».

 
Credit: 1912-13 olio su cartone, cm 59,5×70,4 Collezione Fondazione Cariverona ©Archivio Fotografico Fondazione Cariverona – Saccomani, Verona