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Rohingya, sei mesi dall’esodo

La scorsa estate, mentre l’Italia si scontrava sulle migrazioni nord-sud nel Mediterraneo, l’informazione italiana si era trovata a scoprire quasi all’improvviso un fenomeno di proporzioni decisamente superiori ma geograficamente lontano: l’esodo della minoranza Rohingya, costretta da anni a lasciare lo Stato del Rakhine, in Myanmar, per attraversare il confine e raggiungere Cox’s Bazar, distretto meridionale del Bangladesh.

Non riconosciuti come minoranza in Myanmar, uno tra i Paesi con la maggior ricchezza etnica e linguistica al mondo, i Rohingya vengono considerati dalla maggioranza buddhista come immigrati clandestini provenienti dal Bangladesh e proprio per questo spinti verso l’esterno. In questi sei mesi, oltre 700.000 persone hanno attraversato il fiume Naf per andare a vivere nei numerosi campi, formali e informali, che si sono creati lungo il confine in attesa di una soluzione.

Tuttavia, a oggi quella soluzione non esiste: nonostante le grandi aspettative per il passaggio di consegne tra la giunta militare e il nuovo governo birmano, guidato nei fatti dalla premio Nobel Aung San Suu Kiy, che svolge il ruolo di Consigliere di Stato, Ministro degli Affari Esteri e Ministro dell’Ufficio del Presidente, per i Rohingya non c’è alcun riconoscimento di uno status nel Paese.

Alessia Cornaz, ostetrica di Medici Senza Frontiere, ha trascorso gli ultimi mesi sul confine tra Myanmar e Bangladesh e racconta che coloro che arrivano in Bangladesh «si trovano a vivere in campi sovraffollati. Per quanto stia accogliendo i rifugiati che arrivano dal Myanmar, il Bangladesh non è pronto a far fronte a questa emergenza. I rifugiati vivono in campi non regolari, non riconosciuti e in situazioni molto difficili».

Si tratta di un’emergenza che non si esaurisce con la fuga, ma che prosegue all’interno dei campi. Non appena arrivano in queste strutture, i rifugiati Rohingya raccontano infatti di sentirsi insicuri e di aver vissuto minacce e violenze nei loro villaggi, di aver venduto i loro beni per avere i soldi necessari per salire su una barca e fuggire. Per loro, rimanere nel proprio villaggio non rappresenta più un’opzione.

Che tipo di intervento è possibile portare?

«C’è una carenza di tutti i servizi di assistenza sanitaria. Nei campi di rifugiati che si sono creati nel Bangladesh, abbiamo aperto diversi progetti di assistenza primaria, con ospedali e centri che permettano un’ospedalizzazione di più di 24 ore».

Le situazioni all’interno di questi luoghi sono molti differenti, proprio come nei campi che conosciamo di più, come quelli mediorientali e nordafricani. In questo caso l’accesso agli operatori è garantito?

«In realtà dipende dai campi: uno dei più grandi, che è anche quello che esiste da più tempo, da prima di quest’estate, è un campo più facilmente gestibile. Ci sono anche altri due campi che sono facilmente accessibili e sono quelli in cui ho lavorato, mentre ce ne sono altri nei quali le organizzazioni non governative internazionali non hanno alcun accesso. Ecco, in quei campi non si sa nemmeno quali siano i bisogni e purtroppo non c’è nessuna ong capace di portare questi servizi».

Nei suo ruolo di ostetrica lei si trova ad avere a che fare con la salute materna e quella infantile, con una fascia di popolazione particolarmente vulnerabile in un contesto che è già di per sé di vulnerabilità. Quali sono i bisogni specifici?

«Come per tutte le donne in gravidanza, in realtà i bisogni sono principalmente di rassicurazione, oltre alle necessarie visite regolari con un’ostetrica per valutare l’andamento della gravidanza e intervenire in caso sia necessario. In generale, le gravidanze sono principalmente fisiologiche, quindi non hanno bisogno di grossi interventi. È però importante seguirle regolarmente con un professionista sanitario proprio per avere la possibilità di intervenire nel caso ci siano dei segnali di patologie in corso per una buona salute in gravidanza: è importantissimo per lo sviluppo di un feto e poi di un neonato sano e naturalmente un’assistenza al parto data in sicurezza di nuovo permette di avere una mamma e un neonato in salute».

Da operatrice non ci si sente soli in contesti come questo in cui si interviene in campo emergenziale ma con un supporto politico molto limitato?

«Quello che fa la differenza è il supporto del gruppo, dell’organizzazione. Devo però ammettere che c’è molta più attenzione al dramma dei Rohingya rispetto a quelli di tante altre popolazioni in altre parti del mondo, che invece magari potrebbero coinvolgere l’Europa e l’Italia più direttamente. Prima di lavorare in Bangladesh ho lavorato in Repubblica Centrafricana in condizioni veramente difficili dalle quali comunque la gente cerca di scappare quando possibile, eppure nessuno ne parla ed è molto meno conosciuto rispetto al dramma dei Rohingya, per cui oggi c’è molta attenzione, almeno a livello della stampa internazionale».

Lei ha avuto l’impressione durante questa esperienza che ci sia una via d’uscita?

«Purtroppo una via d’uscita è impossibile vederla e penso che questa gente purtroppo non potrà ritornare in Myanmar. Al momento è impensabile, perché le violenze verso questa popolazione non si stanno riducendo, quindi non è sicuro di tornare e la situazione in cui stanno vivendo al momento in Bangladesh non può continuare».