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Elezioni 2018. Senza una prospettiva escatologica, tutto è possibile?

Questa è – almeno finora – la più orribile campagna elettorale della storia della Repubblica.

Lo è innanzitutto perché, dopo ormai un quarto di secolo di ininterrotta diseducazione civica intensiva e di massa, sembra arrivata a compimento la sistematica rottura di tutti i tabù che erano stati eretti a tutela della civiltà, del civismo e della decenza all’indomani della caduta del fascismo. Lo “sdoganamento” della critica distruttiva dei fondamenti della democrazia liberale era iniziato attraverso progressivi slittamenti del significato stesso delle parole della politica.

Nel cinquantennio precedente il 1994, in Italia come in Germania, e per ragioni simili (e all’opposto che in Francia o in Gran Bretagna), “destra” era divenuto sostanzialmente sinonimo di destra estremista, di matrice totalitaria e fascista: anche le forze politiche conservatrici rifiutavano quella definizione e preferivano in genere definirsi centriste. Ne conseguiva un assurdo geometrico, dato che il partito di centro per antonomasia aveva alla sua destra il solo sei per cento dei voti mediamente conseguiti nelle elezioni della Camera dal MSI, e, alla sua sinistra, più o meno, un altrettanto costante cinquanta per cento abbondante. A partire dal 1994 si cominciò invece a definire “centrodestra” lo schieramento che comprendeva la destra estremista, e “centrosinistra” uno schieramento che, ai tempi di Prodi, andava dal monarchico Fisichella fino al trotzkista moderato Turigliatto. “Moderato”, che prima del ’94 era quasi, incomprensibilmente, un insulto, divenne d’un tratto il modo per definire più o meno il populismo autoritario.

In materia di concezioni della democrazia, di riforme costituzionali, di contenuti minimi della convivenza civile, cominciarono allora ad avere libero corso idee e concezioni fino poco prima respinte da tutte le forze politiche democratiche. Persa la fede nelle certezze autoritarie del passato, che peraltro erano in via di estenuazione da decenni, ma che ancora perduravano come un orizzonte palingenetico sempre più lontano, anche per buona parte della sinistra di matrice comunista si cominciò a pensare che, caduta quella prospettiva escatologica, tutto fosse ormai ammissibile. Una seria e rigorosa pratica delle regole della democrazia costituzionale e dei suoi limiti sembrò troppo paludata, noiosa, di nuovo – come già cent’anni fa – “grigia”. Tutti o quasi, nella politica italiana, si omologarono alla prevalente nuova narrazione che riteneva più “moderno” affidarsi alla guida tribale di un “capo”.

E la democrazia divenne semplicemente il governo della maggioranza politica, assoluta o relativa che fosse la maggioranza elettorale che la esprimeva. Ormai anche esplicitamente, al posto di progetti politici dotati di senso, si trattava di comporre in un patchwork i risultati dei sondaggi, o le preferenze degli internauti. Di nuovo, come cent’anni fa, freni e contrappesi formali e sostanziali, regole e controlli costituzionali, assieme ai tabù posti dalla civiltà politica come risposta alle tragedie del Novecento, diventavano materia per “lamentosi e melanconici zelatori del supercostituzionalismo” (Mussolini).

A un quarto di secolo da allora, perfino mostrarsi apertamente razzisti sembra oggi giovare elettoralmente. Forse a chi rileggerà fra qualche decennio le cronache di campagne elettorali come questa verrà spontaneo il paragone con le democrazie che nel 1939 fecero di tutto per rifiutare lo sbarco ai mille ebrei tedeschi imbarcati sulla nave St. Louis.

E se non ci sarà una pronta resipiscenza, si ricorderanno questi anni come quelli dell’incapacità degli europei di portare a termine un disegno di integrazione democratica (cioè non più intergovernativa) che sola consentirebbe loro di avere voce e margini di autodeterminazione nel mondo globale, qualunque uso volessero poi farne.

Se c’è una posta in gioco in queste elezioni italiane – come prima in quelle olandesi, francesi e tedesche, che bene o male la prova l’hanno superata – è proprio questa. Si potrà essere anche molto insoddisfatti dell’Europa così com’è – cioè come l’hanno voluta i governi statali “sovrani”: e i primi ad esserlo sono proprio i federalisti europei eredi di Spinelli, di Rossi, di Einaudi e del valdese Rollier. Ma rintanarsi nell’impossibile sovranità delle nostre ormai piccole nazioni in un mondo interdipendente, pensare di poterne essere protetti immaginandosi di nuovo in un’Italia mai esistita, “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”, omogenea, chiusa al mondo, e senza diversità e libertà per minoranze e non conformisti, significa ingannare gli elettori, significa trattarli – come proprio nel ’94 era stato teorizzato – come una massa di scolaretti undicenni, ai quali è meglio non dire la verità, perché queste sono le regole della pubblicità commerciale, cui il dibattito politico deve essere ridotto per poter essere efficace.

È la via del declino sia civile che economico, del resto, a ben vedere, imboccata da allora. Ma chi l’avrebbe mai detto nel 1994 che, per la seconda volta in un secolo, l’Italia avrebbe aperto la porta a una regressione generale, che altri, di nuovo, avrebbero portato a conseguenze peggiori? Certo l’odierno populismo autoritario non è il fascismo e non pretende di irreggimentare masse entusiaste, ma è difficile negare che, sulla strada inaugurata dall’Italia, altri si siano avventurati andando oltre. Trump non è forse, in tutte e ciascuna le sue manifestazioni, un Berlusconi d’antan elevato all’ennesima potenza?