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Chi fa le leggi? E quali leggi?

Dunque, tra qualche giorno, torniamo a votare stimolati soprattutto dalle campagne sulla sicurezza, alimentate dalla paura verso i migranti e dalle preoccupanti manifestazioni di razzismo e di neofascismo. I programmi elettorali rimangono sullo sfondo: tornano utili solo quando i contendenti sono chiamati a mettere in mostra le loro abilità dialettiche, risorsa sempre più scarsa tra i nostri esponenti politici. Nessuno, però, chiarisce che cosa andranno davvero a fare i nostri eletti in Parlamento. Perché, in realtà, il compito principale cui i parlamentari sono chiamati è quello di fare le leggi: la funzione legislativa – dice l’art. 70 della Costituzione – è esercitata collettivamente dalle due Camere. Ma è proprio così? E, soprattutto, le leggi, oggi, a quale funzione assolvono?

Cominciamo col dire che negli ultimi anni – governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni – era il Governo, 8 volte su 10, mediamente, a prendere l’iniziativa per fare le leggi. I disegni di legge presentati dai membri del Parlamento hanno avuto percentuali di successo ridicole: meno dell’1%, mentre le leggi proposte dal Governo sono poi entrate in vigore in un buon terzo dei casi. Sono i decreti-legge preparati e approvati dal Governo e poi convertiti in legge dal Parlamento che la fanno da padrone in tutte le materie che richiedono un intervento normativo.

Anche i tempi di approvazione – nelle ultime due legislature – sono stati piuttosto rapidi per le leggi volute dal Governo (circa 4 mesi), decisamente più lenti per quelle volute dal Parlamento (oltre un anno). Il ruolo forte del Governo nel promuovere l’attività legislativa si conferma anche nel frequente ricorso alla «fiducia». Mentre un tempo la «fiducia» al Governo veniva accordata dalle Camere all’inizio del loro mandato, ora – sempre più spesso – l’approvazione di molte leggi (nel 43% dei casi con il Governo Monti, 34% con il Governo Renzi, 44% con il Governo Gentiloni) viene usata come banco di prova per garantire stabilità all’Esecutivo.

Ma l’aspetto su cui dovremmo maggiormente riflettere è la «qualità» delle leggi, in tutti i sensi. Se guardate al periodo – peraltro piuttosto turbolento – degli anni ‘70 del secolo scorso ci sono state almeno venti leggi che hanno letteralmente cambiato l’Italia e ne hanno prefigurato e anticipato i cambiamenti, hanno valorizzato la parte migliore della nostra Nazione. Mi riferisco allo Statuto dei lavoratori, al divorzio, agli asili nido, alla tutela delle lavoratrici madri, alla scuola a tempo pieno, all’obiezione di coscienza, al nuovo diritto di famiglia, ai consultori, alla riforma penitenziaria, alla legge Merli per la tutela delle acque, alla parità salariale tra uomini e donne, alla riforma sanitaria, all’aborto, alla legge Basaglia, all’equo canone. Si facevano tante, troppe leggi. Ma si facevano leggi di settore e se ne coprivano le spese anche a costo di sforare i bilanci.

Se guardiamo alle leggi degli ultimi anni sembra passata un’eternità. Il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, i controlli sempre più stringenti in materia economica e finanziaria per rispettare i parametri europei, il decadimento della classe politica e, infine, la grave crisi iniziata nel 2008 hanno profondamente modificato il modo di fare le leggi e la loro funzione.

Ormai dominano lo scenario legislativo non più delle leggi di settore (giustizia, tributi, scuola, per fare degli esempi), ma dei grandi contenitori normativi, dove troviamo di tutto con la preoccupazione dominante di non scardinare i limiti di bilancio. Anzi: spesso e volentieri si introducono «riforme» (come quelle sulla giustizia) senza variazioni di spesa, mentre richiederebbero generosi investimenti. Le leggi omnibus, le manovre e manovrine – proprio perché contengono di tutto in modo disordinato – non hanno una regia se non di natura finanziaria. E più questi contenitori sono complessi e disorganici più il Governo che li elabora tende a richiedere la fiducia al Parlamento per la loro approvazione. In sostanza, l’elaborazione e la progettazione della legge (se ancora così si può chiamare) avviene ormai totalmente fuori dal Parlamento: negli uffici ministeriali, negli uffici tecnici dei partiti se non nelle lobby interessate a inserire, anche all’ultimo momento, disposizioni in loro favore.

In questo scenario si comprende come i soggetti che governano la produzione legislativa siano in realtà il presidente del Consiglio dei Ministri e il ministro dell’Economia e delle Finanze. Certo: non mancano alcune leggi ben fatte e provvedimenti che cercano faticosamente di comporre interessi contrastanti (lavoro e ambiente). Ma il punto è: il 4 marzo manderemo in Parlamento degli eletti il cui compito fondamentale non è quello di fare delle leggi, ma di controllare l’azione del Governo. Per questo lavoro non occorrono dei Soloni né dei grandi statisti (non ce ne sono più in giro) ma persone oneste, di elevata competenza e di alto senso delle istituzioni. Scoviamole!