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Yemen, i fantasmi del passato, i fantasmi del futuro

Se lo Yemen dovesse essere descritto da un film, in questo momento sarebbe sicuramente un horror popolato di fantasmi: la natura stessa del conflitto, vista dall’Italia, è impalpabile, quasi immateriale, mentre dalle pieghe della storia contemporanea sembra emergere un altro spirito, quello di un Paese diviso in due, proprio come fu dal 1967 al 1990. Tuttavia, anche se ridotti a fantasmi, gli abitanti dello Yemen continuano a esistere e continuano a essere le prime vittime del conflitto.

Anche se la guerra in Yemen, cominciata nel marzo del 2015 con l’intervento militare della coalizione dei Paesi del Golfo guidati dall’Arabia Saudita, sembra cristallizzata in uno stallo senza uscita, gli ultimi mesi, dall’uccisione dell’ex presidente Saleh da parte dei ribelli Houthi in poi, raccontano di una serie di importanti cambiamenti sul terreno.

Nel silenzio della stampa italiana, poco appassionata a quanto accade a sud dell’Arabia Saudita nonostante le implicazioni legate alla produzione e alla vendita di armi a Riyadh, in Yemen potrebbe essersi aperto un nuovo fronte. Il condizionale è d’obbligo, ma i segnali non vanno sottovalutati: a fine gennaio, infatti, il Movimento del sud, appoggiato dagli Emirati Arabi Uniti, ha preso il controllo di Aden, città portuale nel sud del Paese. La città era stata proclamata “capitale provvisoria” dal presidente Abdel Rabbo Mansour Hadi, sostenuto dall’Arabia Saudita, quando i ribelli Houthi, appoggiati invece dall’Iran, avevano preso il potere a Sana’a, la capitale del nord. Ma quanto è concreta l’ipotesi di una secessione? Per la giornalista Laura Silvia Battaglia, che ha vissuto a lungo in Yemen e che oggi guarda con preoccupazione quello che accade in questo Paese, «potrebbe diventarlo nella misura in cui i sauditi e il governo centrale di Hadi, che comunque sta a Riyadh, accettassero l’idea che in questo momento storico il sud debba essere controllato dagli emiratini per ragioni di sicurezza».

Che cos’è il Movimento del sud? È una novità?

«È un movimento che nasce nel 2007, quindi non è nulla di nuovo. Ai tempi si faceva chiamare al-Hirak ed è un movimento che ha sempre chiesto e preteso l’indipendenza, quindi non era d’accordo nemmeno per l’ipotesi di uno Yemen federato. La richiesta è sempre stata quella dell’indipendenza dal nord, dove per “nord” si intende Ali Abdullah Saleh, cioè l’allora presidente dello Yemen, che ha governato facendo il bello e il cattivo tempo per 33 anni.

Le tensioni negli anni si sono fatte molto forti, perché Saleh, così come aveva fatto con gli Houthi, aveva portato le sue truppe ad agire contro i separatisti del sud. Dopo la rivoluzione araba del 2011, che è stata anche una rivoluzione yemenita, quindi con la presidenza Hadi, il Movimento del sud si è rifatto vivo e ha di nuovo chiesto di separarsi in occasione del tavolo di concertazione per una nuova Costituzione».

A quel punto come si sono mossi?

«Bisogna dire subito che sono meno duri e puri degli Houthi, che comunque hanno sempre avuto una visione molto più militare rispetto al Movimento del sud, che è invece sempre stato più politico. I separatisti hanno approfittato della debolezza dello Stato, perché Hadi è decisamente debole, per poter ritornare in auge. L’hanno fatto con l’appoggio degli Emirati Arabi Uniti, che hanno foraggiato le milizie del sud e che hanno individuato in Aidar al-Zubairi, il loro leader, un soggetto interessante sul quale appoggiarsi, quindi c’è stato un accordo tra entrambe le parti».

Come mai gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di appoggiare i separatisti?

«Per mettere all’angolo Hadi, perché secondo gli emiratini durante la liberazione dell’aeroporto di Aden dagli Houthi, l’attuale presidente si è comportato in modo non conforme al suo ruolo. Hadi avrebbe imposto agli emiratini il figlio come controllore di queste aree e questa cosa non è affatto piaciuta agli Emirati, che hanno trovato un partner interessante nel Movimento del sud. Insomma, questo nuovo fronte è del tutto interno, ma ha ovviamente attori esterni che agiscono dall’interno del Paese».

Questo manda ulteriormente in crisi la lettura della guerra come conflitto tra sunniti e sciiti, che oltretutto in Yemen è una divisione non molto netta. Qual è oggi l’orizzonte di questo nuovo fronte?

«È possibile che questa nuova situazione anziché diventare una separazione possa essere il preludio a uno stato federato, che poi era quello che si diceva in origine, prima di scrivere una nuova Costituzione. È una cosa che cerco sempre di spiegare rispetto allo Yemen: gli yemeniti quando combattono hanno una visione molto realista e concreta della politica, quindi fanno alleanze di brevissimo periodo, utili più che altro al controllo locale e alla possibilità di avvantaggiarsi in una serie di traffici, che sono poi quelli che i signori della guerra mettono in atto e che vanno dalla corruzione alle armi.

Queste azioni non hanno carattere definitivo rispetto all’assetto del paese: per esempio, abbiamo saputo nei giorni scorsi che a un certo punto Al Zubairi si è fermato e ha deciso di pensarci un po’ e magari di trovare un accordo con Hadi, perché comunque controlla la zona di Aden. Lo scenario è estremamente mobile e bisogna chiedersi anche che fine faranno i Fratelli Musulmani yemeniti, cioè il governo Hadi, tutti coloro che lo sostengono e che sono soprattutto concentrati nella città di Taʿizz, che è la città che ha subito più perdite e più devastazione».

Le Nazioni Unite si sono dimostrate incapaci di far sentire la propria voce. Perché, secondo lei?

«In questi giorni non sentiamo una voce dall’Onu per un motivo semplice: Cheikh Ahmed, che era l’inviato dell’Onu in Yemen, si è ritirato. È il secondo inviato che si ritira dal 2011 a oggi e adesso bisognerà trovarne un terzo, che per ora dovrebbe essere Martin Griffiths, un inglese che ha un centro per la pace in Svizzera e che aveva risolto situazioni difficili nella regione africana dei Grandi Laghi e anche nei Balcani. C’è però da dire che in generale l’Onu ha una presa molto leggera non solo sulla popolazione yemenita, com’è evidente da tempo, ma anche nella politica dello Yemen.

Ci sono anche altri motivi: uno di questi è il fatto che questi interlocutori, pur essendo persone che provenivano da una cultura, diciamo così, “araba” in senso molto lato, non avevano probabilmente ben compreso alcuni meccanismi collegati alle relazioni tra tribù e non hanno messo in campo progetti chiari per risolvere alcune questioni già a livello tribale. Si spera che Griffiths, essendo britannico, possa avere una funzione di mediazione, perché in questo momento il Regno Unito riesce a dialogare anche con gli Houthi. Insomma, per una serie di motivi potrebbe riuscire in qualche modo a spostare l’asse su altri tipi di alleanze e far fronte alla crisi umanitaria di proporzioni gigantesche che si sta vivendo e che non vede miglioramenti».

Lo Yemen di oggi è un Paese in cui alle minacce per la sicurezza si sommano le epidemie, dal colera alla difterite. In questi anni lei ha mantenuto contatti nel Paese: qual è la più grande preoccupazione per chi è rimasto in Yemen?

«Chi sopravvive sopravvive, si dà da fare come può e non pensa sostanzialmente a quello che può avere in più. Gli yemeniti si sentono abbandonati dal mondo, è un discorso che emerge continuamente quando si parla con chiunque, che provenga dal nord o dal sud non fa differenza. Chi abita in zone con presenza di milizie, come la zona centrale di Aden o le aree vicine ad Al Baida, dove ci sono anche i jihadisti, oppure nel nord, a Sana’a o a Taʿizz, è molto preoccupato dall’azione di queste milizie, che rispondono a un far west che si rifà solo al controllo di porzioni di territorio. Una delle cose che effettivamente preoccupa di più le famiglie oggi è il reclutamento di giovani tra i 15 e i 18 anni che non hanno nessuna voglia di andare a combattere, ma che possono essere reclutati dalle milizie con minaccia alle famiglie. Questo è un grande tema, di cui si parla molto poco perché ci sono poche testimonianze, ma effettivamente ha un riscontro sociale importante e drammatico perché in molti di questi casi se la famiglia si rifiuta spesso il padre viene arrestato o scompare. Non c’è alcun controllo».

Immagine: via Flickr, di Martin Sojka