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In Svizzera a rischio il pluralismo informativo

Il 4 marzo non si recheranno alle urne soltanto gli elettori italiani. In Svizzera la popolazione è chiamata ad esprimersi, come prassi democratica nel Paese, su un’ iniziativa popolare (strumento simile al referendum) che rischia di sconvolgere il quadro dell’offerta radio televisiva. I votanti dovranno infatti decidere se proseguire o meno con il pagamento del canone alla SSR, la Società svizzera di Radiotelevisione, l’equivalente della nostra Rai. Una vera e propria rivoluzione con i canali e siti internet pubblici che quindi scomparirebbero, o verrebbero inglobati o gestiti da network privati.

Il tema sta allarmando da tempo non solo gli addetti ai lavori, preoccupati per la perdita delle garanzie che gli introiti del canone consentono per la realizzazione di tutti i programmi, così come in sofferenza andrebbero molte emittenti locali che di parte di questo denaro usufruiscono. A rischio dunque oltre 6 mila posti di lavoro e il pluralismo garantito da un servizio pubblico, capace di dare voce a chi non ne avrebbe.

Sul piede di guerra su questo fronte anche la Federazione delle chiese protestanti svizzere, che denuncia il rischio di scomparsa di tutti quei programmi e servizi rivolti alle minoranze, che una televisione fondata su puri criteri privati e commerciali non avrebbe più interesse a perpetuare e sviluppare.

Ne abbiamo discusso con Paolo Tognina, giornalista del Canton Ticino, che da 17 anni si occupa di “Chiese in Diretta”, su Rete Uno, e “Tempo dello Spirito su Rete Due. E’ anche il volto di “Segni dei Tempi”, la rubrica settimanale evangelica in onda su La1, che si occupa di dialogo interreligioso, etica e spiritualità, e redattore di Voce Evangelica, la rivista delle chiese evangeliche di lingua italiana in Svizzera.

Perché è stato proposto questo referendum? E’ la prima volta o è già accaduto? E se si con quali esiti?

«Coloro che hanno condotto l’iniziativa (si tratta di un’iniziativa popolare, non di un referendum) ritengono che il canone, in Svizzera, sia troppo alto rispetto a quello pagato in altri Stati europei. Ritengono inoltre che l’ente pubblico radiotelevisivo SSR SRG – che ha quattro centri di produzione, a Zurigo SRF per la Svizzera tedesca, a Ginevra RTS per la Svizzera francese, a Lugano RSI per la Svizzera di lingua italiana, a Coira RTR per la Svizzera di lingua romancia – sia sovradimensionato e impedisca la crescita del settore privato nel campo dell’informazione. Ancora, affermano che l’obbligatorietà del versamento del canone impedisca la libertà di scelta tra i canali televisivi e radiofonici della SSR SRG e altri canali, pubblici o privati, offerti da altri e neghi il principio del “pago per ciò che consumo, se non consumo non pago”.

È la prima volta che in Svizzera viene lanciata una simile iniziativa. Il dibattito, in parlamento, sulle competenze e il raggio d’azione della SSR SRG è però già iniziato qualche anno fa: i partiti di centro e di destra chiedono da tempo una riduzione del canone, contestano l’espansione della SSR SRG ad esempio nel campo del web e hanno ottenuto che parte del canone (ca. 5%) venga versato a diverse emittenti radiofoniche e televisive private in tutta la Svizzera».

Come funziona il sistema radio televisivo svizzero e a cosa serve il canone?

«Il canone serve a finanziare la produzione radiofonica e televisiva dei canali SSR SRG. Il canone non copre completamente i costi, una parte del finanziamento è assicurata da introiti pubblicitari. Il canone viene versato in un’unica cassa centrale, dalla quale vengono poi prelevate le quote destinate alle diverse unità produttive. Il principio che determina la ridistribuzione delle entrate è improntato alla difesa delle minoranze. In pratica, gli utenti italofoni versano circa 50 milioni di franchi l’anno di canone, ma la RSI riceve circa 240 milioni di franchi l’anno per assicurare le proprie produzioni. Stesso principio vale anche per il centro della Radiotelevisione romancia di Coira (i romanci in Svizzera sono circa 60’000 e non potrebbero certo sostenere da soli la RTR). Lo stesso vale anche per la RTS a Ginevra. Ovviamente, è soprattutto la Svizzera tedesca e dunque la SRF a dover rinunciare a una parte degli introiti a favore delle altre regioni linguistiche. Ma questo è appunto il sistema federalista».

Perchè c’è stata la levata di scudi in particolare da parte delle chiese riformate del Paese?

«Sono molti i settori della società civile che si sono levati in difesa del canone: le chiese (prima la Conferenza dei vescovi, poi la Federazione delle chiese evangeliche, ora anche l’Alleanza evangelica… con qualche voce fuori dal coro, in campo evangelicale e cattolico conservatore), i sindacati, gli ambienti artistici e intellettuali. In ambito politico, solo l’Unione democratica di centro e i Giovani liberali sostengono l’iniziativa, gli altri partiti hanno indicato di bocciarla. I contrari all’iniziativa sottolineano l’importanza del servizio pubblico radiotelevisivo quale collante identitario svizzero, ricordano la miriade di iniziative sostenute e rese possibili dalla SSR SRG (dal Festival del Cinema di Locarno alle Giornate del Cinema di Soletta, a concerti e festival in tutta la Svizzera, alle campagne di raccolta fondi in caso di catastrofi umanitarie e così via), ricordano che solo un servizio pubblico può coprire anche l’attualità regionale e locale, richiamano il valore storico degli archivi della radio e della televisione pubblica. La SSR SRG impiega circa 6000 persone in tutta la Svizzera. La sua chiusura porterebbe inevitabilmente a un’ondata di licenziamenti. Per quanto riguarda le chiese, è chiaro che se l’iniziativa verrà accettata, insieme alla SSR SRG spariranno anche tutti i programmi religiosi televisivi e radiofonici che sono finanziati in larga parte dall’ente pubblico.

Cosa vuol dire al giorno d’oggi garantire il pluralismo informativo: è un valore che deve andare al di là dei meri riscontri commerciali? Oppure è giusto vivere un mondo on demand, dove tutto sia a pagamento e l’utente paghi solo ciò che vede?

«Il principio “pago solo ciò che consumo” è frutto di un esasperato egoismo. Se fosse applicato a tutti i servizi porterebbe al collasso della società (pago le tasse solo se ho figli che vanno a scuola, pago le tasse e l’assicurazione malattia solo se vado all’ospedale, pago le tasse solo se viaggio in automobile e uso le strade, pago le tasse solo se uso i mezzi pubblici di trasporto). Il sistema attualmente in vigore, in Svizzera, impone alla SSR SRG di fornire un’informazione equilibrata, non di parte, rispettosa delle differenti opinioni. Qualora il pubblico avesse l’impressione che questo principio non sia rispettato, c’è la possibilità di rivolgersi a un organo di controllo. Il canone permette di finanziare la produzione evitando un’invasione pubblicitaria dei programmi (recentemente, Canale 5 e RSI La1 hanno diffuso, la stessa sera, lo stesso film: sul canale di Mediaset il lungometraggio è durato esattamente 57 minuti di più). Gruppi linguistici minoritari usufruiscono, grazie all’attuale sistema, di un’accurata copertura mediatica, televisiva e radiofonica: solo un sistema pubblico, non basato su logiche commerciali e dunque sul principio di redditività, può agire in questo modo: un privato che deve far quadrare i conti taglierebbe tutti i “rami secchi”».

Il Canton Ticino è ancora un caso a parte con i riformati che sono piccola minoranza: situazione ancora peggiore?

«Per il Ticino, e più in generale la Svizzera di lingua italiana (comprendendo anche le valli di lingua italiana dei Grigioni), la situazione non si presenta diversamente da quella delle altre regioni linguistiche: l’accettazione dell’iniziativa comporterebbe la chiusura della RSI, la fine di tutti i programmi (compresi quelli religiosi, tra cui anche quelli protestanti), il licenziamento di oltre mille persone».

Se dovessero vincere i sostenitori dell’abolizione del canone, quali scenari si aprirebbero?

«Il testo dell’iniziativa non lascia scampo: nella Costituzione sarà iscritto il divieto, per la Confederazione, di sovvenzionare un ente radiotelevisivo di servizio pubblico e l’obbligo di mettere all’asta le frequenze radiotelevisive. È dunque evidente che lo spazio lasciato libero dalla SSR SRG verrebbe occupato dai privati, svizzeri o stranieri. Per la Svizzera italiana, romancia e forse anche francese, si aprirebbe uno scenario molto incerto: come finanziare una radio o una televisione di buona qualità a fronte di un pubblico numericamente molto ridotto? Forse solo la Svizzera tedesca potrebbe avere la massa critica necessaria per ricostruire qualcosa di simile all’attuale SRF, ma per le altre regioni ciò è praticamente impossibile».

Pensiamoci anche noi, ora che in tempo di campagna elettorale c’è chi puntualmente chiede l’abolizione del canone Rai, che con le sue debolezze è l’unico argine televisivo al pensiero puramente commerciale.