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La testimonianza e la responsabilità nel Paese

In questa campagna elettorale, in cui i (pochi) contenuti sembrano fare appello alla suggestione, alla paura e ai risentimenti personali anziché sollecitare la riflessione, il ragionamento e lo scambio dialettico, prima di affrontare in futuro alcuni temi che riguarderanno non i programmi (piuttosto evanescenti) ma il senso stesso della politica ci chiediamo quali indicazioni possiamo ricevere dalla storia della presenza evangelica nel nostro Paese. 

Una storia fatta innanzitutto di adesione: l’epoca del Risorgimento ci racconta del desiderio da parte degli evangelici di essere parte della nazione che si andava costruendo e di portare liberamente al proprio vicino o collega l’annuncio evangelico. Il rapporto con lo Stato era innervato della riconoscenza di poter testimoniare nella libertà. E’ così anche oggi? Ce la facciamo a provare il desiderio di raccontare ai nostri concittadini e concittadine la gioia della Fede?

Resi forti dalla predicazione evangelica, che ci insegna a guardare laicamente a ogni realizzazione umana e a ogni ideologia, dovremo resistere ad alcune tentazioni. Una è l’indignazione: è vero che succedono fatti gravi in materia, per esempio, di corruzione (c’è chi continua, beatamente, a quasi 30 anni da «Mani pulite»). Ma è facile dirsi indignati. Stigmatizzare i comportamenti disonesti o anche solo lesivi di un vivere civile è sacrosanto, ma rinchiudersi nel proprio guscio di onestà individuale porta a vedere il mondo e la società con occhi molto personali: a volte si vedono le pagliuzze e non le travi. Discutere apertamente i problemi in tutti i luoghi che lo consentono (pochi, oggi), fare aggregazione e portare nella società civile la capacità di stare con gli altri – una pratica che fin da bambini impariamo nelle nostre comunità – serve ad allargare i propri orizzonti e a non ritenersi gli ultimi onesti del Paese.

I credenti e le chiese, poi, dovranno guardarsi da un altro pericolo: alcuni politici e intellettuali fanno riferimento al cristianesimo chiamando l’Europa a difendersi in virtù delle proprie radici cristiane. Perché costoro, spesso privi di interesse per Dio e Gesù Cristo, vorrebbero sostenere le istituzioni (umane) proprio in quanto fondate su Cristo? Le chiese non possono farsi ridurre a elemento culturale e baluardo della tradizione, a sfondo paesaggistico, garante del nostro Continente. L’Evangelo non è una polizza d’assicurazione, fede e sincerità li riconosceremo «dai frutti» (Matteo 7, 15).

Le chiese dovrebbero poi porre attenzione a una tendenza che ultimamente ha coinvolto maggioranze più ampie di quelle dei governi e che ha portato all’approvazione di varie leggi relative ai diritti degli individui: materie serie, che incidono nell’esistenza di molti italiani e italiane (fine vita, unioni civili); ma qualcuno dovrà cercare di costruire un tessuto connettivo per spiegare, nella cultura più diffusa possibile, che questi diritti devono trovare un senso compiuto nella società. Oggi non esistono più grandi movimenti di massa né paiono praticabili grandi rivendicazioni di classe: ma la riduzione dei problemi a «problemi dei singoli» finirà per lasciare sempre più soli quei singoli che sono più fragili e isolati.

Infine: a 80 anni dalle vergognose Leggi razziali fasciste non si può che rifiutare l’utilizzo elettoralistico del concetto di razza, da qualunque parte provenga, così come qualunque tentativo di rivalutazione del fascismo stesso. Le chiese che in Sud Africa avevano «legittimato» la segregazione razziale sono state «sospese» dall’ecumene protestante: le chiese protestanti e le loro organizzazioni funzionano anche in virtù dei meccanismi di responsabilità ereditati dalla Riforma: assemblee locali e di livello via via superiore; assunzione di responsabilità; educazione e autoeducazione nel saper accettare costruttivamente le decisioni prese in questo modo: un modo perfettibile, ma il migliore che abbiamo, per il cui uso dobbiamo sempre ripassare le istruzioni.