800px-nanga_parbat_from_air

Tragedia e solidarietà sul Nanga Parbat

«Elisabeth, nice to see you». Sono le prime parole di Denis Urubko a Elisabeth Revol, in piena notte, in pieno inverno a oltre 6000 metri. Ma andiamo con ordine.

Quando Elisabeth  Revol e Tomek Mackiewicz hanno deciso di provare a salire il Nanga Parbat (8126 metri, nona montagna più alta del mondo, situata in Pakistan) erano ben consci degli alti rischi che si sarebbero presi. Soli di fronte a una montagna colossale (chiamata la «montagna assassina» per l’alto tasso di mortalità di chi prova a salirla, il 28%) nella stagione più difficile, senza possibilità di venire aiutati da nessuno in caso di qualunque tipo di problema. Le distanze, le quote, le temperature non sono quelle delle Alpi dove (quasi sempre) elicotteri e o squadre del Soccorso Alpino a piedi possono intervenire. Gli elicotteri in alta montagna volano fino a 6400 metri (prendendosi rischi enormi) e le distanze sono amplificate.

Sul Nanga Parbat d’inverno ci sono arrivate solo tre persone, nel 2016: l’italiano Simone Moro, Alex Txikon e Ali Sadpara (non senza polemiche). Proprio Revol nel 2012-13 aveva tenta la montagna con Daniele Nardi e i due erano stati respinti. Mackiewicz l’aveva tentata un numero incredibile di volte (questa era la settima, sempre d’inverno), anche con Revol. Per l’eccentrico alpinista polacco era la montagna del destino.

Nei giorni scorsi una finestra di bel tempo ha permesso a Eli e Tomek l’ultimo tentativo (poi permessi, biglietti aerei avrebbero reso impossibile un’altra salita) dopo circa 10 giorni trascorsi in alta quota, attorno ai 7000 metri. Ore di apprensione per la comunità alpinistica mondiale perchè tardavano ad arrivare informazioni circa il successo o meno del tentativo alla vetta. Poi i messaggi di Eli che parlavano di una situazione drammatica. Saliti per una via individuata ma mai salita (Messner-Eisendle) stavano scendendo da un altra, la «normale» (Kinshofer). Lei con congelamenti alle estremità (mani e piedi) e Tomek colpito da cecità (probabilmente dovuta a edema) e anche lui con congelamenti.

Quello che è successo negli ultimi tre giorni è particolare e drammatico. Da un lato nel nostro mondo dove siamo sempre connessi e reperibili i due alpinisti non hanno potuto, se non per brevi momenti, comunicare. E l’hanno fatto per chiedere un disperato aiuto. L’altro lato della medaglia però è la possibilità di vivere un’avventura che pensavamo si fosse esaurita ai giorni nostri e invece alcuni angoli del mondo ci permettono ancora di sperimentare esperienze al limite.

La macchina dei soccorsi si è messa velocemente in moto. Le ambasciate francesi e, soprattutto polacche, si sono mobilitate per attivare gli elicotteri pachistani (militari) che sono partiti il giorno successivo solo dopo aver avuto le garanzie economiche adeguate. Dall’altro è stato lanciato un crowfounding on line che ha raccolto in poche ore decine di migliaia di euro.

Qui si innesta la parte più solidale della vicenda. In queste settimane una robusta spedizione polacca sta tentando la salita, prima invernale, al K2, la montagna degli italiani, l’unica a essere ancora inviolata nella stagione fredda. I polacchi e gli Ottomila d’inverno hanno storia a sè: 10 su 14 portano la firma degli alpinisti di Varsavia. In un solo caso hanno condiviso la salita con uno straniero, il già citato Moro, salitore anche di altri tre ottomila d’inverno.

Ricevuta la notizia della situazione drammatica di Eli e Tomek i polacchi si sono resi disponibili a una operazione di soccorso. In quattro sono stati prelevati dal campo base del K2 con gli elicotteri dopo essere scesi dai campi più alti e portati a 5000 metri sul Nanga Parbat. Di qui, di notte, Denis Urubko, Adam Bielecki, Piotr Tomala e Jarosław Botor sono saliti di notte verso Eli e Tomek a una velocità incredibile. I primi due con uno sforzo enorme hanno raggiunto dopo alcune ore di difficile e pericolosa scalata la francese. «Elisabeth, nice to see you». Dopo poche ore di riposo hanno iniziato tutti e tre la discesa insieme, valutando il soccorso a Tomek troppo rischioso, anche per via di un meteo in rapido peggioramento.

 

Ecco quindi un altro aspetto che ha un peso importante nella vicenda. I polacchi hanno abbandonato (per carità, solo momentaneamente) la loro spedizione, il loro forse più grande sogno, rischiando molto per un’operazione di soccorso che ha dell’incredibile. Un gesto estremamente solidale come spesso ne accadono in montagna. Ma al tempo stesso un dolorosa scelta di lasciare un uomo a 7200 al suo destino in una tenda.

Forse la stessa Revol aveva già capito che entrambi non avrebbero potuto salvarsi e aveva fatto una scelta dolorosa ma inevitabile, quella di scendere sola verso una difficile salvezza.

I quattro polacchi hanno scortato Revol fino al campo base raggiunto domenica 28. Lei è partita in elicottero, dicono serena, alla volta delle cure mediche negli ospedali. I polacchi invece tornano al K2. E meriterebbero di arrivare in vetta alla montagna degli italiani quantomeno come giusto riconoscimento per questa operazione di salvataggio.

Tomek è rimasto e rimarrà in una piccola tenda sulla montagna che ora è indissolubilmente legata a lui e a Revol. La via, solo individuata e mai salita Messner-Eisendle diverrà Mackiewicz-Revol dal nome dei primi salitori che l’hanno seguita da soli, in pieno inverno, fino alla cima del Nanga Parbat.