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«Chi era lontano è diventato vicino…»

La posta in gioco è alta: basti pensare alle questioni dell’accoglienza, della libertà religiosa, della difficoltà di conciliare realtà culturali e teologiche lontane fra loro, della necessità di mutare un punto di vista ancora troppo eurocentrico.

Il numero 4 del 2017 di Protestantesimo, rivista della Facoltà valdese di Teologia di Roma, prende in esame questi e altri temi,ed è il frutto di un lungo percorso, come ci spiega il professor Yann Redalié, già docente e decano della Facoltà, membro del comitato di redazione di Protestantesimo e tra i docenti del Master di teologia interculturale avviato dalla Facoltà nel 2016/2017 (ne avevamo parlato qui).Proprio da quest’ultimo nasce il numero della rivista, che riprende «parte del materiale delle prime cinque sessioni del Master, ricollegandosi anche a un numero precedente di Protestantesimo, il 66, che nel 2011 rifletteva sulla questione dell’interculturalità nelle nostre chiese a partire dai percorsi di formazione per predicatori locali».

Il tema si presta a una diffusione tra un pubblico più ampio di quello consueto, conferma Redalié: gli istituti di formazione, le diverse realtà che si occupano di interculturalità, «perché la questione è all’ordine del giorno sia nelle nostre chiese sia nella società. Ormai la maggioranza dei fedeli nelle grandi città europee non ha più la pelle bianca: aGinevra ci sono una quarantina di parrocchie protestanti e una cinquantina di chiese etniche africane. C’è una rivitalizzazione della fede e della sua espressione a partire dall’immigrazione e si può leggere una mutazione della pratica cristiana nelle nostre società “post-secolarizzate”».

Ma come nasce l’idea di una teologia interculturale? Questa, spiega Redalié, è profondamente intrecciata con la storia della teologia delle missioni e dell’ecumenismo, di cui è stato un elemento determinante, con la ricerca di un modo di superare le divisioni in particolare fra le confessioni nate in ambito protestante. «Dai paesi di missione d’oltremare è arrivato un impulso alla creazione del Consiglio ecumenico: prima si rifletteva su come comunicare il Vangelo nei paesi di missione, adesso questa riflessione si è spostata nella nostra società.Chi era lontano è diventato vicino,a Bologna i bambini della scuola domenicale sono in minoranza italiani e in maggioranza ghanesi o di altri paesi… la teologia dell’oltremareè diventata parte integrante delle nostre comunità».Sul territorio italiano si incontrano infatti le diverse teologie del mondo: «La teologia africana che cerca di rivalorizzare le tradizioni e vede Cristo come l’antenato, l’iniziatore, è molto diversa da quella dei teologi della liberazione dell’America del Sud, o dalla teologia asiatica… e poi è diverso essere un cristiano africano nel proprio paese, a Palermo o a Bologna…».

La teologia interculturale riflette su questo «incontro ravvicinato» per capire come dare origine a un nuovo modo di elaborare la teologia:«è un percorso in evoluzione, sullo sfondo della globalizzazione, una tendenza all’omologazione nei rapporti culturali rispetto ad esempio alle seconde generazioni»: i figli di immigrati somigliano sempre più agli italiani, ma entrano in gioco trasversalità ed elementi culturali importanti come il rapporto con la famiglia, la trasmissione di valori, le genealogie…

Le differenze fra componente straniera e italiana sono rilevanti, spiega Redalié: per gli stranieri «la comunità religiosa è molto importante, è una forma di appartenenza identitaria, un modo di essere qualcuno. Questo rende a volte la componente straniera qualitativamente più presente rispetto a quella italiana, molto più individualizzata, che non ha questo senso collettivo di appartenenza alla comunità. La questione non è tanto nel numero ma nella qualità della presenza:molto della socialità viene vissuto all’interno della chiesa, con attività quasi ogni giorno, mentre noi europei abbiamo una grande frammentazione, molte attività e gruppi al di fuori della comunità ecclesiale». Però c’è anche una componente intergenerazionale da non sottovalutare: «Un adolescente africano nato in Italia vive la tensione fra l’appartenenza alla famiglia e ai valori trasmessi e il vissuto della scuola, degli amici italiani…  Si scontrano le attese dei genitori e quelle dei giovani.Inoltre, molte volte nelle nostre comunità i più anziani sono italiani e i giovani sono rappresentati da immigrati», e questo crea delle dinamiche particolari.

Sono questioni da affrontare anche a livello pratico, conclude Redalié: «La scommessa del Master è passare dal caso concreto all’elaborazione accademica e poi tornare alla realtà, in modo da fare dialogare i singoli casi, farli diventare significativi, formativi per le comunità». L’importante è «avere un atteggiamento di ascolto e di esplorazione, anche critico, facendo in modo che non sia semplicemente una questione di folklore».