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Un nuovo fronte per la guerra in Siria?

Dopo alcune azioni preliminari durante la giornata di sabato 20 gennaio, domenica scorsa l’esercito turco, insieme ad alcuni gruppi armati siriani alleati, ha avviato le operazioni militari nel cantone di Afrin, che compone insieme a quelli di Kobane, di Jazira e di Sehba il Sistema Federale Democratico della Siria del nord. L’obiettivo di Ankara è debellare la presenza curda dal confine con il nord della Siria, ma l’azione non piace al regime di Assad e all’Iran, che siedono insieme ad Ankara al tavolo delle trattative di pace portate avanti dalla Russia. In un primo momento, il regime siriano aveva minacciato di reagire abbattendo qualsiasi mezzo aereo turco che superasse il confine, considerando l’azione turca come una violazione della propria sovranità. Eppure, al di là delle dichiarazioni, non sembrano esserci le basi per un intervento armato di Damasco in funzione anti-turca. «C’è una certa difficoltà anche da parte degli analisti – spiega Carlo Pallard, storico e ricercatore di storia contemporanea all’Università di Torino e redattore di East Journal – a capire esattamente che cosa sta succedendo ad Afrin, quali sono le dinamiche più profonde che stanno dietro a questa operazione, anche perché l’escalation è stata estremamente rapida, anche per gli standard della diplomazia internazionale».

Perché la Turchia ha deciso di muoversi?
«Il casus belli di questa operazione militare turca è stato il progetto statunitense di formare delle forze di sicurezza di frontiera, 30.000 effettivi circa, che sarebbero costituite per circa la metà da membri delle delle Forze Democratiche Siriane, a loro volta composte in massima parte dai curdi siriani dello Ypg/Ypj, che sono considerati dalla Turchia un cosa sola con il Pkk e quindi un’organizzazione terroristica. Ankara si è infuriata per questo progetto, al punto che la figura retorica usata da Erdogan è che questa forza, così pericolosa per gli interessi nazionali, va “strangolata nella culla”. Inoltre, anche la Russia, l’Iran e il regime siriano hanno espresso preoccupazione, perché vedono nella creazione di questa forza un tentativo statunitense di rimanere con un piede, o anche due, in Siria».

Stiamo parlando di un’azione mirata a mandare un segnale o invece dobbiamo immaginare che sia davvero una mossa fatta per interesse territoriale?
«È difficile stabilirlo, anche se ufficialmente l’esercito turco si è posto un obiettivo preciso, cioè creare una sorta di fascia di sicurezza di 30km all’interno della Siria a partire dal proprio confine.
Detto questo, è anche complicato capire esattamente quanto la Turchia si sia mobilitata, quanto faccia sul serio, quali possano essere i veri obiettivi strategici sul terreno. Addirittura, in questo momento è difficile vedere esattamente come si sta svolgendo effettivamente il conflitto sul terreno: molto spesso arrivano notizie contrastanti e difficili da verificare, diciamo che è anche in corso una sorta di guerra mediatica tra la parte turca e quella curdo-siriana, con notizie abbastanza improbabili e probabilmente false da entrambe le parti».

La posizione turca non è una novità. Perché finora non si era mai arrivati fin qui?
«L’opposizione turca a qualsiasi tipo di entità turca nella Siria del nord era nota da tempo e rappresenta il punto di frizione tra le visioni della Turchia e dei suoi sempre più teorici alleati, come gli Stati Uniti. È una posizione attestata pubblicamente almeno dall’autunno del 2015, quando gli Stati Uniti favorirono la formazione delle Sdf e venne proclamato il Consiglio Democratico Siriano, legittimando di fatto questa realtà anche politica che si stava costruendo nelle zone che venivano via via liberate dall’Isis. Quando nel marzo del 2016 è stata proclamata la Federazione Democratica della Siria del nord, la Turchia si è ritrovata un’entità curda ai suoi confini gestita da quelli che sono i suoi nemici storici, cioè sostanzialmente dal Pkk e dalla sua ala siriana».

Era il marzo del 2016, appunto. Ora, a distanza di poco meno di due anni, che cosa è cambiato?
«La Turchia fino a questo punto aveva potuto agire soltanto in contesti estremamente limitati che erano stati in qualche modo concessi, perché gli Stati Uniti si erano fatti garanti delle realtà curde a est dell’Eufrate, mentre la Russia di quelle a ovest. La zona di Afrin, quella che adesso è teatro degli scontri, era quindi soprattutto sotto controllo russo. In questo sistema di equilibri la Turchia aveva potuto, con il beneplacito della Russia e del regime siriano e con l’assenso degli Stati Uniti, condurre l’operazione “Scudo dell’Eufrate” tra l’agosto del 2016 e il marzo del 2017, che ufficialmente aveva lo scopo di liberare la zona di confine della Turchia dalla presenza dell’Isis, cosa che in effetti è riuscita. Con quell’azione la Turchia e i suoi alleati sul campo avevano occupato 2000 km quadrati tra le città di Jarablus e di al-Bab, ma soprattutto Ankara si era incuneata tra le due realtà curde, da una parte il cantone di Afrin e dall’altra il resto della federazione della Siria del nord, creando una presenza strategicamente importante perché separava le due realtà e impediva ai curdi di creare un’unica grande entità al confine con la Turchia».

Non era una conquista sufficiente, insomma?
«Era un risultato, ma soltanto parziale. Sinora la Turchia non aveva potuto fare altro, perché gli attori presenti sul territorio, dagli Stati Uniti alla Russia, non avevano consentito di muoversi ulteriormente.
Ad Afrin invece sembra che la Russia abbia dato l’assenso all’operazione. Non dimentichiamo che questa è una reazione a una mossa americana, ma che si sta attaccando una zona che era sotto tutela russa, quello spazio aereo è controllato dai russi e dal regime di Damasco e ad Afrin c’era anche una presenza militare russa che si è ritirata di fatto consentendo l’operazione turca».

Al di là dell’operazione militare, politicamente che cosa cambia per i curdi?
«La questione più importante che bisogna capire è quale sia oggi la posizione russa nei loro confronti. Un importante rappresentante del governo curdo-siriano, che è Aldar Khalil, sostiene che i russi abbiano offerto ai curdi di Afrin di fermare l’avanzata turca a patto che i curdi accettassero di cedere il loro territorio al regime di Damasco. Al rifiuto curdo, la Russia avrebbe quindi dato il consenso alla Turchia. Se effettivamente le cose sono andate così allora è chiaro che c’è un cambio di atteggiamento di Mosca nei confronti dei curdi siriani. La Russia li ha sempre usati come strumento per fare pressione su Ankara da una parte e anche per convincere un riluttante Assad a seguirli. Oltre a questo non credo che abbiano mai avuto un interesse più profondo sul lungo periodo riguardo ai curdi siriani, a differenza magari degli americani».

In che modo si spostano gli equilibri nell’area?
«Per dirlo bisogna vedere come cambierà il punto di vista russo. La Russia ufficialmente continua a sostenere che i curdi debbano partecipare ai colloqui di pace, ma la Turchia non è d’accordo. Mosca potrebbe aver dato il via libera ad Ankara ma in cambio volere comunque i curdi alle prossime conferenze di pace. In questo modo da una parte si accontenterebbe in qualche modo Ankara rassicurandola, dall’altro potrebbe portare dalla sua parte, magari sottraendoli all’influenza americana, dei curdi ridimensionati nelle loro aspettative. Per contro, l’ipotesi più nera per i curdi siriani è quella per cui la Russia ha definitivamente deciso di scaricarli: a quel punto la palla passerebbe agli americani e bisognerebbe vedere cosa decideranno i turchi dopo Afrin. Se si rivolgeranno a est, verso Manbij, si ritroverebbero a fare i conti con zone sotto tutela americana, a quel punto bisogna vedere quale sarà la posizione degli Stati Uniti, che si ritroverebbero soli a sostenere i curdi contro tutti in Siria. Insomma, oggi la loro situazione è molto più difficile di com’era un mese fa e forse è stato proprio questo appoggio così forte da parte degli Stati Uniti, che continuerà ancora a quanto pare, ad aver irritato quelli che potevano essere altri possibili partner».