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Per non morire di speranza: corridoi umanitari e oltre

È stato un incontro davvero «partecipato» quello di venerdì 12 gennaio al Centro sociale «Casa Mia  Emilio Nitti» a Ponticelli (Napoli), organizzato dalle chiese metodiste e valdesi della Campania, con la Comunità di S. Egidio. Partecipato non solo in termini numerici, ma anche, e direi soprattutto, in termini di coinvolgimento di pensiero ed emozioni, nell’ascolto delle voci di Montrel, Amadou, Amara e Ekoumano.

Montrel è siriano, di religione cristiana (evangelico riformato). Dal Libano, dove si era rifugiato con la sua famiglia, è giunto in Italia in sicurezza, grazie al progetto dei corridoi umanitari attivato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia, dalla Tavola valdese (per le chiese metodiste e valdesi) e dalla Comunità di S. Egidio

«Se mi chiedete se sono felice di essere in Italia, io vi rispondo sinceramente: no. Ancora adesso, dopo quasi un anno dal mio arrivo in Italia, mi sveglio di notte, spaesato, e penso: ma dove sono, perché sono qui? Ma nel mio paese c’è la guerra; c’è Daesh (l’Isis) che ai cristiani offre solo due opzioni: o ti converti o ti tagliamo la testa. E allora lo so perché sono qui, grato a chi ha consentito alla mia famiglia di arrivare su un aereo; e a chi – qui a Napoli – ci ha accolti e ci ha dato un’opportunità di integrazione: sono qui per i miei figli che, grazie ai corridoi umanitari possono vivere una vita normale, frequentare la scuola e la chiesa; non avere paura delle bombe e delle persecuzioni. Ciò che da voi è normale, e cioè che cristiani e musulmani possono vivere insieme, ciascuno nel rispetto del diritto di libertà dell’altro, nel mio Paese non è più possibile. Lì i cristiani devono scappare; eppure quello è il Paese in cui i cristiani sono esistiti da sempre!».

E poi (dall’altra parte del filo che separa idealmente l’umanità dalla disumanità, la legalità dall’illegalità, anche nel modo di arrivare in Italia, in Europa) Amadou, Amara e Ekoumano, giunti da paesi dell’Africa sub sahariana non presenti nelle mappe delle guerre formalizzate, ma che vivono in situazioni di grave instabilità politica ed economica, in cui vengono spesso calpestati diritti umani fondamentali e il futuro appare un’ipotesi incerta.

Nelle loro testimonianze, tutta la fatica e l’orrore di viaggi interminabili e terribili. Attraverso il deserto «dove per giorni non hai da bere e da mangiare e vedi morire le persone accanto a te, amici, familiari o semplici compagni di viaggio, e tanti, tanti bambini».

Nei campi di detenzione in Libia, dove «ti ficcano dentro e ti picchiano a sangue senza un perché, magari solo perché parli, chiedi spiegazioni; e da cui esci se c’è qualche familiare o amico che è disposto a pagare ancora tanti soldi».

Sui barconi che attraversano il Mediterraneo, dove «vedi altri morire e tu pensi che morirai anche tu, lontano da casa, dagli affetti».

E infine le ingiustizie che in qualche caso si subiscono anche qui, in Italia, in un sistema di protezione e accoglienza non sempre adeguato e trasparente. Ma qui si lotta non da soli. Accanto puoi trovare chiese, associazioni laiche, persone di buona volontà che sono disposte a metterci la faccia perché la verità e la giustizia siano ripristinate.

Alcune parole in queste testimonianze si sono ripetute, lasciando una traccia particolarmente forte in chi ascoltava, con attenzione e commozione.

«Non lasciamo crescere lingiustizia»; «curiamo l’educazione dei più piccoli»; «passiamo agli altri ciò che abbiamo ricevuto» e «salvezza»: nelle mani dei marinai italiani (molto citati, con sincera gratitudine) che ogni giorno pattugliano il mare con le organizzazioni umanitarie, per salvare quante più vite possibile, in un Mediterraneo che è diventato una tomba a cielo aperto; e poi nei luoghi di accoglienza umana, di educazione, di integrazione: le scuole di italiano; i luoghi di formazione professionale; i corsi per il diploma; e per qualcuno il sogno realizzato dell’Università.

Parole di umanità e verità contro le parole false, ma suggestive che ossessivamente vengono ripetute in Tv, sugli autobus, per le strade, in un clima di egoismo e razzismo crescenti che ci sfida e ci interpella come italiani ed europei, e ancora di più come cristiani.

Cattolici ed evangelici uniti nell’ascolto e nell’impegno di testimonianza in parole e azioni coerenti: con grandi progetti (che richiedono organizzazione e mezzi), ma anche con piccoli progetti, alla portata di ogni chiesa, di ogni gruppo locale, che, semplicemente accettino di fare ciò che si può, non rispetto alla generalità di problemi immensi, ma rispetto alle persone in carne e ossa che incrociano la nostra strada. Progetti grandi e piccoli nei quali coinvolgere tutte le persone di buona volontà (variamente credenti e non credenti), in un dialogo paziente con le istituzioni pubbliche e con la società civile; senza avere paura di dire e fare cose che non sono molto «popolari» in questo momento, ma anzi spesso scoprendo che le azioni giuste producono effetti collaterali inattesi e sorprendentemente positivi.

Un pomeriggio ben speso, il modo migliore di avvicinarsi alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani!