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Il calcio può ancora portare con sé dei valori

Roberto Davide Papini, valdese di Firenze e giornalista al quotidiano La Nazione, è fra i vincitori del premio Ghirlanda d’Onore al 35° Sport movies & TV – Milano international Ficts Fest, una manifestazione che presenta documentari, servizi tv e opere di finzione dedicate allo sport. Si trattava di una sorta di «finale» di 16 altri festival che rappresentano come un campionato mondiale di tv, cinema, cultura e comunicazione sportiva. Papini ha presentato un mediometraggio dal titolo Campioni per sempre – Fiorentina ‘55-’56, dedicato alla squadra di Sarti, Julinho e Chiappella, che vinse il primo dei due campionati «in viola». Da questo lavoro abbiamo preso lo spunto per ragionare di calcio e altro…

Dopo lo scudetto 1955/56, quattro secondi posti, ma soprattutto un grande legame umano tra i giocatori: che squadra era quella Fiorentina?

«È una squadra e sono dei giocatori dei quali ho sentito parlare nei racconti di mio nonno e di mio padre, racconti inevitabilmente circondati di leggenda. Non li ho visti giocare se non in qualche spezzone d’epoca, ma ho capito che l’aura di leggenda non era un’esagerazione familiare, o comunque non solo. A Firenze questa squadra è più amata e celebrata di quella che vinse il secondo scudetto, 13 anni dopo. Ancora oggi se parli di Julinho a un tifoso di 30 anni (che certo non può averlo visto giocare) gli brillano gli occhi. Ecco, questo mi fa capire che questa squadra aveva qualcosa in più, dal punto di vista tecnico e umano. Ho avuto la fortuna di conoscere alcuni di loro in occasione di questo lavoro e ho scoperto alcune delle chiavi di quel successo: l’amicizia e la semplicità».

I giocatori intervistati non si sentono né vecchi né reduci, ma tuttora impegnati a lavorare seriamente con l’allenatore. Vincere un campionato e continuare a giocare serve a invecchiare bene?

«Credo che far parte di un gruppo di amici così legati aiuti a vivere (e invecchiare) bene. Purtroppo, però, sono rimasti in pochi».

C’è un riferimento, in un’intervista, all’alluvione del 1966: la città sembra essere stata stregata da quella data scioccante, ma forse le due date insieme spiegano molto di Firenze…

«È stata una tragedia scioccante, un lutto che ancora ogni fiorentino si porta dentro. Ma attraverso la rinascita è stata anche un’occasione per prendere coscienza di quanto sia grande Firenze, di quanto sia amata (la mobilitazione nazionale e internazionale fu commovente) e di quanto i fiorentini (quando vogliono) sappiano essere straordinari».

È fin troppo facile dire, oggi, che quello era calcio d’altri tempi. Ma questo film arriva quando il calcio italiano vive una delle crisi più tristi: fuori dai Mondiali, ruolo ingombrante dei procuratori, soldi, sponsor. Eppure siamo sempre lì a seguire il calcio: che cosa ci attira, nello sport con le sue regole, i suoi riti e liturgie? Vale ancora il discorso secondo il quale sarebbero più «puliti» altri sport?

«Non farei un discorso di pulizia, ma di compatibilità, buon senso, di sport a misura d’uomo. Il calcio sta un po’ perdendo le misure, è tutto sovradimensionato, esagerato, gonfiato, gridato. Poi arriva la Svezia e ci rimette al nostro posto, ci spiega che il nostro calcio è mediocre e deve restare (giustamente) fuori dai Mondiali. Nonostante questo il calcio è ancora passione, è identità, è fatto di legami familiari, di vita, di emozioni. È una grande rappresentazione popolare capace di affascinare in modo trasversale: uomini e donne, poveri e ricchi, intellettuali e persone comuni, giovani e vecchi. Però, se tiriamo ancora la corda con lo strapotere di sponsor e tv mettendo al centro solo il business, rischiamo di ammazzare questo sport. Gli stadi sempre più vuoti (e scomodi) sono un segnale da non sottovalutare».

Un ruolo pesante, nell’accentuare le storture (e a volte qualche episodio commovente) è quello della stampa, pettegola e pronta a creare miti eccessivi, sopravvalutando i giovani per poi demolirli altrettanto presto. Che cosa non va?

«Ci vorrebbe più equilibrio da parte di tutti noi operatori dei media. Prima di parlare di campioni o di fuoriclasse ci vorrebbe più prudenza, invece oggi sei un fenomeno e domani sei un brocco. In effetti in altri sport c’è un maggiore equilibrio da parte di stampa e tv».

Alcuni atleti oggi si fanno il segno della croce; altri, evangelici di varia provenienza, soprattutto latinoamericana o africana, pregano e si rivolgono al cielo dopo un goal: è facile che si guardi a loro con paternalismo, ma siamo molto meglio noi «disincantati»?

«Io guardo ogni manifestazione religiosa con eguale rispetto, soprattutto quando non è superstizione, ma è qualcosa di più profondo. In generale, il fatto che dei ragazzi giovani, ricchissimi e popolarissimi trovino il tempo e sentano il bisogno di ringraziare Dio in maniera esplicita a me fa piacere e, in una certa misura, è una piccola forma di testimonianza. Chissà, se lo facessimo più spesso anche noi in ufficio, per strada o in famiglia, non sarebbe male, no?».

È possibile vedere il mediometraggio a questo indirizzo.