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Tunisia, nelle strade per il pane

L’ultima settimana in Tunisia è stata caratterizzata da violente proteste per le nuove misure di austerità imposte dal governo. Le proteste hanno portato a oltre 800 arresti, un centinaio di feriti e almeno un morto, un uomo di 45 anni che secondo i manifestanti è stato travolto dalla polizia, ma che secondo il ministero dell’Interno è deceduto per un’insufficienza respiratoria. Domenica 14 gennaio il governo ha annunciato un pacchetto di misure volte ad attutire l’impatto della manovra finanziaria sulle famiglie in difficoltà, ma questo non sembra più bastare.

Queste proteste, nate in risposta a misure economiche che confermano ancora una volta lo stato di crisi del Paese, si sono concentrate nella capitale, Tunisi, e nella zona di Tebourba, una città poco più o a ovest, ma le manifestazioni si sono tenute in almeno una ventina di città, compresa Sidi Bouzid, dove nel gennaio del 2011 si diede fuoco il venditore ambulante Mohamed Bouazizi, come forma estrema di protesta contro le condizioni economiche. Il suo suicidio, proprio 7 anni fa, segnò la svolta nelle proteste che permisero di allontanare il presidente Zine al Abidine Ben Ali.

Proprio a Tunisi si trova il giornalista freelance Cosimo Caridi, che racconta che «questo provvedimento ridisegna un po’ il tipo di tassazione che devono pagare i tunisini: è aumentata l’Iva in tutte le aliquote, vengono inseriti dei contributi di solidarietà obbligatori per i dipendenti pubblici e privati, vengono alzate una serie di tasse come quelle sul carburante o sui beni di prima necessità. Il problema però non è tanto l’aumento delle tasse in sé e per sé, quanto la stagnazione dell’economia. L’economia tunisina è bloccata dalla rivoluzione o poco dopo. Negli ultimi due anni il dinaro, che è la valuta locale, ha perso il 50% del suo valore, l’inflazione continua a crescere, gli stipendi sono bloccati».

Quella tunisina è considerata l’unica tra le “primavere arabe” ad aver avuto successo, soprattutto in termini di espressione democratica, ma i problemi di natura economica che erano stati alla base di quella stagione non sembrano essere risolti.

Come si è arrivati a questo punto?

«La rivoluzione prima e gli attacchi jihadisti poi hanno portato a far fuggire i capitali stranieri che arrivavano in Tunisia. Inoltre, gli attacchi del Bardo e di Sousse hanno fatto in modo che la prima industria del Paese, il turismo, subisse una colpo di arresto tremendo. In questo scenario è facile pensare che la popolazione, nel momento dell’anno in cui si ricorda la rivoluzione, sia scesa in piazza ricordando che 7 anni fa si era chiesto che queste cose non avvenissero. Inoltre, rispetto a 7 anni fa la situazione economica è nettamente peggiorata. In tutto questo il governo non ha saputo rispondere se non chiedendo aiuto al Fondo Monetario Internazionale, che ha dato una liquidità di 2,8 miliardi di dollari per dare la possibilità al Paese di pagare i debiti che aveva. Insomma, si sta ripetendo in scala molto più piccola quello che è successo in Grecia, cioè un Paese con un debito pubblico che si alza, con una disoccupazione molto alta e con tasse che si alzano. Allo stesso modo, i governanti hanno un riferimento unico che non è rilanciare l’economia, ma pagare i debiti facendo nuovi debiti con i fondi stranieri, cio il Fondo Monetario Internazionale per la Tunisia e la Trojka per la Grecia. Questo porta i cittadini alla frustrazione, perché si rendono conto immediatamente che le nuove tasse che verranno pagate non si risolveranno né in un mese, né in due mesi né in sei mesi, ma rimarranno così a lungo. Questo, insieme all’economia bloccata, porta all’eruzione in strada delle proteste. Proteste per il pane, in fondo, com’era successo 7 anni fa con Bouazizi.

Come ha risposto il governo?

«La risposta del governo a queste proteste è stato il pugno duro. Gli 800 arresti sono certamente dovuti al fatto che le proteste sono diventate violente in diverse città del Paese, ma soprattutto dovute al fatto che l’idea del governo è stata quella di arrestare immediatamente, togliendoli dalla strada, i leader della protesta. Non c’è una referenza politica di questa protesta, quindi togliere le persone che gestiscono la protesta dalla strada vuol dire tagliare sul nascere ogni possibilità».

È molto difficile fare previsioni, ma vivendo il polso delle strade tunisine in questo momento l’idea è che queste proteste siano destinate a spegnersi in qualche misura o invece diventeranno strutturali, magari più a livello politico?

«Il discorso politico è molto complesso da fare in questo momento, perché il governo cambia una volta ogni 10 mesi: dalla rivoluzione ci sono stati 9 governi e hanno governato tutti i colori che ci sono in Parlamento, dagli islamisti di Ennahda che vinsero le elezioni subito dopo la rivoluzione, fino ai laici. Ora ci troviamo di fronte a una grossa coalizione sul modello tedesco in cui si sono tanto i laici quanto gli islamisti. Questo porta a guardare alla politica con poca speranza: se ogni volta che il governo va in crisi se ne forma uno nuovo, senza però andare a elezioni e proponendo sempre le stesse persone in una nuova formazione, è chiaro che la popolazione non ha tanto interesse a confrontarsi con la politica rappresentativa. Da un altro punto di vista è vero che i tunisini sanno per la loro storia che lasciar fare ai politici. a questa classe politica molto anziana che governa il Paese, non aiuta sicuramente».

Questo può portare a una rottura del sistema politico attuale, quindi a una nuova rivoluzione?

«Sinceramente dubito che la situazione possa degenerare ulteriormente. Ieri sera ci sono stati nuovi scontri in una piccola cittadina che si trova nella Grande Tunisi, con una grande quantità di gas lacrimogeni, nuovi arresti e nuovi feriti, però si tratta sempre di giovani non organizzati, senza un riferimento politico, una struttura, un leader che possa intavolare una trattativa con un governo. Questo significa che qualsiasi richiesta, anche la più legittima, se non ha una trasformazione da una richiesta di strada a un’altra richiesta politica non va da nessuna parte».

La Tunisia è comunque considerata la storia di maggiore successo delle primavere arabe. C’è il rischio che questi problemi rendano vano il percorso che la Tunisia ha compiuto in questi anni?

«Rispondo con un esempio: la Tunisia è stato il primo Paese, non solo nel Maghreb ma in tutto il Mediterraneo, che negli anni Cinquanta ha legalizzato l’aborto e il divorzio, questo perché c’è un impulso laico importantissimo. Tuttavia, fino all’anno scorso c’era una legge, che avevamo anche in Italia fino agli anni Ottanta, che permetteva a un uomo di stuprare una donna e poi di non andare in carcere se dopo la sposava. Questa legge è stata tolta lo scorso anno in un impulso riformista laico, anche se siamo in un Paese guidato da un partito islamista. Insomma, ci sono delle cose che stanno andando avanti, quella dei diritti è una battaglia che sta andando avanti e sta andando avanti bene, al punto che rispetto agli altri Paesi del Maghreb o agli altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, compresi quelli del Medio oriente, la battaglia per i diritti individuali è molto avanzata».

Quindi il problema è soltanto di carattere economico?

«Diciamo che la questione economica è, e rimane, completamente bloccata e questo non si risolverà se non con degli investimenti che arriveranno da noi, dall’Italia e dalla Francia come primi Paesi partner. La Tunisia è un Paese piccolo, quindi evidentemente se manca questo, se manca una possibilità economica per andare avanti, non ci sarà nessuna possibilità che i tunisini costruiscano il loro futuro basandosi su quello che hanno, perché non c’è niente. Per contro, c’è tanta emigrazione, la Tunisia è il Paese che esporta più foreign fighters nel mondo, si stima che siano almeno 3.500-3.700 le persone che sono partite dalla Tunisia per andare a combattere in Libia e in Iraq. Queste persone torneranno indietro radicalizzate, qualcuno sta già tornando, per cui il rischio è di trovarsi una Tunisia in cui la disoccupazione è oltre il 30%, le tasse non sono più pagabili perché troppo alte e il debito pubblico altissimo, dove quindi la possibilità che arrivi un jihadista e spinga tutti a fare la guerra contro il governo è alta».

 

Foto di Luca Russo