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Le radici ebraiche della fede cristiana

Uno dei dibattiti più interessanti riguarda oggi il ruolo dell’esperienza nella teologia. Alister McGrath definisce il significato dell’esperienza nel campo religioso, riferendolo «alla vita interiore dei singoli, là dove diventano consapevoli dei propri sentimenti ed emozioni» (Teologia cristiana, Claudiana, Torino, 2010). Il libro di Daniela Li Muli* si colloca pienamente in tale dimensione esperienziale. Nato come tesi di laurea, coronamento degli studi alla Facoltà valdese di Teologia, si presenta oggi sotto forma di un saggio destinato a un pubblico più ampio rispetto a una cerchia di docenti e studenti di teologia.

È una coincidenza particolarmente felice che questo libro sia stato pubblicato nell’anno in cui le chiese protestanti in Italia e altrove ricordano il 500° anniversario della Riforma. La domanda centrale posta dall’autrice investe, infatti, le basi e le radici dell’essere chiesa oggi. Secondo i principi fondanti della Riforma protestante Solus Christus e Sola Scriptura, che questo libro valorizza con convinzione, le basi sono gli scritti del Primo e del Secondo Testamento interpretati nell’ottica cristocentrica. Non si tratta tuttavia di un puro e semplice esercizio di teologia biblica. L’obiettivo della ricerca è invece quello di sottoporre la propria esperienza religiosa al vaglio delle Scritture per giungere alla consapevole e articolata confessione della fede cristiana.

La fede cristiana non può essere scissa dalle sue radici ebraiche. Daniela Li Muli mette in evidenza quest’asserzione proponendo una sua visione personale della teologia cristiana dell’ebraismo. Una teologia segnata non solo da un semplice dialogo ma anche da un senso di «doppia appartenenza» spirituale (e non istituzionale, ovviamente).

L’autrice però non si ferma qui, coinvolgendo il lettore in un percorso di teologia ebraica del cristianesimo. Nella sua proposta intellettuale tale teologia dovrebbe svolgere costantemente un ruolo critico nei confronti di tutte le istituzioni e realizzazioni ecclesiali. Detto in altre parole, seguendo la classica distinzione di Martin Buber: la fede ebraica dovrebbe aiutare quella cristiana a depurarsi dalle scorie di carattere religioso che talvolta rendono poco efficace la testimonianza cristiana.

Il termine chiave dell’intera proposta teologica è hālākhāh come percorso comune alle fedi ebraica e cristiana. Si tratta di una scelta particolarmente interessante che meriterebbe un ampio dibattito. A prescindere dal significato puramente tecnico del termine hālākhāh si può affermare che la proposta di Daniela Li Muli cerca di rilanciare la narrazione, affermando la sua superiorità rispetto all’asserzione. Non di rado infatti, la teologia cristiana ha commesso l’errore di essere troppo assertiva a scapito della narrazione.

Franco Cambi afferma a questo proposito: Nella narrazione c’è il coinvolgimento dell’io, la partecipazione del soggetto-destinatario che, attraverso l’introiezione di questa pratica si fa, può farsi soggetto-attore, ovvero narratore. Essa rappresenta la via aurea di accesso al mondo, alla sua lettura, alla sua denominazione, alla sua presa di coscienza. Via aurea poiché primitiva, originaria e radicale (che sta alla radice, e del pensiero e del linguaggio) attraverso la quale il soggetto si introduce al reticolo degli accadimenti, alla lettura dei loro rapporti, alla disamina delle loro ragioni, al resoconto dei loro effetti (Saperi e competenze, Laterza, 2004). Seguendo il metodo talmudico Daniela Li Muli non propone risposte definitive e chiuse. Al contrario, il suo saggio contiene numerose questioni aperte con le quali non solo le teologhe e i teologi di professione dovranno confrontarsi attentamente nei tempi che vengono.

* Daniela Li Muli, Ipotesi di una hālākhāh ebraico-cristiana. Palermo, Edizioni La Zisa, 2017, pp. 80, euro 12,00.

 

Foto: Vincent Van Gogh, Still Life with Bible