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Etiopia, una nuova fase per i diritti umani?

Il 2018 si è aperto con nuove speranze per l’Etiopia, un Paese al centro di grandi tensioni politiche negli ultimi anni e su cui i dubbi della comunità internazionale sono diventati sempre più insistenti.

In una conferenza stampa il 3 gennaio, precisata poi da un comunicato del giorno successivo, il primo ministro dell’Etiopia, Hailemariam Desalegn, ha annunciato che alcuni prigionieri politici verranno perdonati e liberati, e che uno dei più noti centri di detenzione del Paese, Maekelawi, conosciuto soprattutto come luogo di tortura, verrà chiuso. In un primo momento si pensava che fosse volontà di Desalegn rilasciare tutti i prigionieri politici, ma questa interpretazione è stata negata dal governo etiope, che ha parlato di un errore di traduzione.

Amnesty International, che aveva interpretato le parole del primo ministro nel senso più ampio, ha parlato di un possibile segnale della «fine di un’epoca di sanguinosa repressione in Etiopia», ma allo stesso tempo ha avvertito che la chiusura del centro di detenzione di Maekelawi, che verrà convertito in un museo, non può essere un modo per dimenticare tutti i terribili fatti che si ritiene si siano svolti tra quelle mura. «Un nuovo capitolo in materia di diritti umani – ha dichiarato l’organizzazione internazionale – potrà essere aperto solo se le denunce delle torture praticate a Maekelawi e altrove saranno indagate e i responsabili  saranno puniti. Infine, chiediamo indagini anche sulle decine di sparizioni forzate avvenute a partire dal 1991. Non basterà rilasciare alcuni dissidenti pacifici senza rendere noto il destino di molti altri».

Atnaf Berhane è uno dei molti giornalisti messi in carcere con l’accusa di terrorismo per aver pubblicato articoli critici nei confronti del governo. Nel 2014, quando aveva 24 anni, ha passato tre mesi nel centro di Maekelawi, e da allora è stato uno tra i più attivi nel testimoniare e denunciare condizioni e azioni disumane, come l’essere rinchiusi in una cella senza finestre né luce solare o essere interrogati per otto ore al giorno.

Tra i prigionieri più noti va ricordato anche il cittadino britannico Andargachew Tsege, sequestrato nel 2014 durante uno scalo aereo e obbligato ad andare in Etiopia, dov’era stato condannato a morte in contumacia per le sue attività politiche contro lo Stato.

Fino alla fine dello scorso anno, tuttavia, l’Etiopia aveva sempre respinto le accuse, negando addirittura l’esistenza di prigionieri politici nel Paese, come invece sostenuto da ong per i diritti umani e dai partiti di opposizione. Proprio per questo, la decisione del governo appare ancora più sorprendente.

L’annuncio segue alcune settimane di incontri tra i quattro partiti politici che compongono la coalizione dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front, che governa il Paese dal 1991.
Nella conferenza stampa, Desalegn ha affermato che con questa decisione si intende aprire al dialogo politico e ampliare lo spazio democratico. «I politici sotto processo si vedranno annullare il processo, mentre quelli precedentemente condannati saranno perdonati». La decisione sembra dunque essere un’offerta di pace per appianare la crescente discordia politica, che da anni rischia di portare il Paese a una rottura economica e umanitaria.

Il governo etiope, infatti, è in grande difficoltà a gestire le proteste portate avanti a partire dal 2015 da parte delle due più grandi comunità del Paese, gli Oromo e gli Amhara, che esprimono oltre la metà dei 100 milioni di abitanti dell’Etiopia e che chiedono che venga messa fine a decenni di sistematica esclusione da parte della minoranza Tigray, che gestisce il potere. In particolare, l’Oromo Peoples’ Democratic Organization e l’Amhara National Democratic Movement, che fanno parte della coalizione al governo, chiedono con sempre maggiore insistenza che il proprio spazio politico venga ampliato in nome del “rispetto per la propria gente”.

Il governo ha sempre risposto a queste proteste con la forza, attirandosi molte critiche dagli alleati occidentali dell’Etiopia, e si ritiene che almeno 11.000 persone siano state arrestate per motivi politici, mentre centinaia le persone uccise dalle forze di sicurezza. È probabile che la decisione di invertire la rotta sia dovuta prevalentemente a preoccupazioni di carattere economico, perché il governo teme che il protrarsi delle sommosse possa mettere in crisi l’economia del paese, che invece si trova in pieno boom, oltre a fermare il percorso che sta trasformando l’Etiopia in un importante centro per l’industria dell’abbigliamento.

Rimane comunque davvero difficile capire esattamente quanti politici si trovino in carcere o nei centri di detenzione, ma si ritiene che siano almeno 1.000 quelli condannati a vario titolo per terrorismo e attività contro lo Stato, compresi alcuni leader di alto profilo dell’opposizione. Inoltre, sono almeno altri 5.000 i casi ancora pendenti, la gran parte dei quali risalenti all’ottobre 2016, quando nel Paese venne proclamato lo stato d’emergenza.

Per Amnesty International, «la maggior parte dei prigionieri di cui è stato annunciato il rilascio non avrebbe mai dovuto essere incarcerata, essendo colpevole unicamente di aver esercitato in modo pacifico i diritti umani». La speranza è che a queste decisioni segua la modifica della dichiarazione antiterrorismo, ritenuta alla base degli arresti e delle condanne di questi anni.