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Una promessa radicata in Dio e nella società

Con l’avvio di un nuovo anno abbiamo rivolto alcune domande alla pastora Mirella Manocchio, presidente dell’ ‘Opera per le Chiese Evangeliche Metodiste in Italia (Opcemi)

L’inizio dell’anno è il momento tradizionalmente dedicato dalle chiese metodiste al culto di Rinnovamento del Patto: un patto è uno scambio reciproco di promesse, in questo caso fra Dio e gli uomini, quali sono queste promesse e l’impegno reciproco che ne deriva?

«Due parole per inquadrare storicamente questa tradizione metodista che però nei secoli è stata adottata anche da altre denominazioni protestanti e che con il Patto d’Integrazione tra metodisti e valdesi è entrata a far parte del patrimonio spirituale anche della chiesa valdese. John Wesley, fondatore del metodismo, costruì questa liturgia cultuale riprendendo alcuni elementi delle opere dei puritani Joseph e Richard Alleine e nel 1755, in un momento di difficoltà e perdita di entusiasmo che il movimento stava attraversando, durante un incontro nazionale essa venne utilizzata per la prima volta dalle chiese metodiste per ribadire la volontà di rispondere con fiducia alla chiamata al servizio al mondo a loro rivolta da Dio. Nella concezione metodista, biblicamente radicata, Dio ha fatto un Patto di amore e grazia con l’umanità, che amplia quello fatto con Israele, e dall’altro capo vi è l’umanità credente che risponde e impegna se stessa operando una scelta in favore di Dio e della creazione tutta con la consapevolezza che “la forza di adempiere a tutti questi compiti ci è data in Cristo” (dalla liturgia del culto di Rinnovamento del Patto)».  

 

Quello a cui si fa riferimento non è soltanto un patto di solidarietà fra Dio e l’umanità ma anche fra gli uomini stessi, come dimostra l’impegno storico dei metodisti a favore degli altri. Un impegno che è stato recentemente premiato dal Consiglio mondiale metodista attraverso l’attribuzione del World Methodist Peace Award all’Opcemi. Qual è il significato di questo riconoscimento, tenendo conto che parla esplicitamente del periodo dal 1989 a oggi e quindi non si limita a considerare le “emergenze” più recenti? 

«Dinanzi alla scelta fatta dal Consiglio metodista mondiale non possiamo che esprimere prima di tutto gratitudine. Gratitudine per il riconoscimento ricevuto, gratitudine per il lavoro fatto per decenni da tante nostre sorelle e fratelli in molte parti d’Italia spesso operando con pochi mezzi e scarso riconoscimento nell’affrontare un fenomeno che negli anni ’80 stava cominciando a emergere con forza. Nelle motivazioni del premio, il Consiglio ha voluto tener conto di questa continuità di impegno e ritengo lo abbia fatto perché esso è iniziato quando il fenomeno poteva sembrare qualcosa di temporaneo ed emergenziale e invece fu affrontato con una prospettiva anche di lungo termine, aiutando chi arrivava a sentirsi parte del nostro paese a 360 gradi. La gratitudine, però, lascia subito posto alla responsabilità perché questo lavoro, questa prospettiva vocazionale non può dirsi certo conclusa o ampiamente attuata, semmai ha ancora molti passi da compiere. Territorialmente l’impegno è ancora a macchie di leopardo e a volte vi è chi ha pensato bastasse delegare l’intervento alle nostre opere di diaconia, forse per non farsi troppo toccare da questo fenomeno fatto di carne e sangue; a livello nazionale vi è poi il fronte “politico-istituzionale” che va sempre sostenuto perché la nostra azione non abbia solo valore caritativo, ma sia pure volta a incidere nelle strutture ingiuste della nostra società. Certamente l’idea dei corridoi umanitari sviluppata dalla Fcei va in questa direzione, come pure a suo tempo l’adesione alla campagna “L’Italia sono anch’io” e oggi al digiuno per sostenere l’approvazione della legge sullo ius soli».

 

Nella menzione del premio si fa riferimento a un «andare contro corrente» dei metodisti italiani («Quando molti hanno affermato che i problemi erano insormontabili, l’atteggiamento dellOpcemi è stato assai differente…»): è un atteggiamento vivo ancora oggi e in che modo ha a che fare con il tema del rinnovamento del Patto?

«A volte dinanzi a situazioni e fenomeni globali è normale avere la tendenza a sentirsi come schiacciati e impotenti, a volte guardando alle nostre realtà di chiese minoritarie ci diciamo che possiamo fare poco, ma credo che l’impegno sul fronte delle migrazioni e dell’interculturalità ecclesiale svolto in questi decenni come chiese metodiste e valdesi, anche in collaborazione con le altre denominazioni protestanti della Fcei e con altri partner ecumenici, ci abbia mostrato proprio il contrario: quando ci affidiamo con fiducia al Signore cercando di fare la sua volontà pure con i nostri piccoli numeri e con i nostri limiti possiamo fare la differenza ed essere un piccolo segno profetico. Credo sia questo uno degli elementi portanti della teologia del Patto, sul versante della risposta umana all’azione divina, ripreso nella liturgia metodista. Al tempo stesso è qualcosa che tendiamo a dimenticare per strada e così il fatto di voler riconfermare insieme come comunità di credenti il Patto stretto con Dio è un modo non solo per far memoria di una scelta fatta a suo tempo, ma anche occasione per riflettere comunitariamente a quanto ancora rimane da fare e a quali nuovi compiti siamo chiamati per testimoniare la grazia di Dio».