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Asilo cercasi: tutti i numeri, e qualche considerazione

Open Migration è il portale creato dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili, la rete di organizzazioni che lavorano per l’avanzamento dei diritti umani e delle libertà civili nel nostro Paese. Qui di seguito proponiamo un’ampia analisi del funzionamento del sistema di accoglienza italiano e globale. Una lettura consigliatissima.

 

Come ogni anno, il Rapporto sulla protezione internazionale – curato da Anci, Caritas italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes e Servizio Centrale dello Sprar, in collaborazione con Unhcr – offre una fotografia dettagliatissima del sistema di accoglienza italiano, europeo e globale. Facciamo il punto su alcuni dei dati più interessanti relativi all’Italia.

Il rapporto inizia con una disamina della normativa su accoglienza e asilo, alla luce delle molte novità intervenute – come la discutibile riforma su immigrazione e asilo e la novità positiva della nuova legge dedicata ai minori soli. Dalla teoria alla pratica, le trecento pagine del rapporto esplorano poi il sistema d’accoglienza italiano, di cui qui esaminiamo solo alcuni degli aspetti più interessanti.

Sbarchi: da dove partono e dove arrivano

Nel 2016 sono sbarcati sulle coste italiane poco più di 181 mila migranti.
La rotta mediterranea centrale è tornata a essere la più usata per entrare in Europa e in Italia (in particolare a partire dal mese di marzo, dopo l’accordo fra Ue e Turchia). Se in passato la rotta aveva multipli luoghi di partenza in Africa settentrionale, negli ultimi anni le partenze si sono concentrate soprattutto nel nord della Libia: quasi tutti gli sbarcati in Italia sono infatti partiti dalla coste libiche – per la precisione 162 mila persone, circa il 90 per cento del totale – mentre i rimanenti sono invece partiti da Egitto e Turchia).

Per quanto concerne invece le nazionalità di provenienza, la Nigeria si conferma come primo paese d’origine, con quasi 38 mila migranti arrivati nel 2016, cioè circa il 21 per cento del totale, e oltre 14 mila nel primo semestre del 2017. Ed è bene ricordare che i nigeriani, “migranti di serie B”, hanno sì il record di arrivi e richieste di protezione, ma anche quello di dinieghi dell’asilo.
A seguire Eritrea, Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Senegal e Mali (quantomeno nel 2016; perché nel primo semestre 2017 il secondo posto spetta al Bangladesh, sono in netta crescita i guineani e ivoriani e diminuiscono invece molto egiziani, somali ed eritrei).

Circa il 70 per cento degli sbarchi – si parla di quasi 123 mila persone nel 2016 –  sono avvenuti in Sicilia, soprattutto nei porti di Augusta, Pozzallo e Catania. Sono invece 30 mila le persone sbarcate in Calabria, quasi 11 mila in Puglia, meno di 5 mila in Campania.

Dopo l’accordo con la Libia diminuiscono gli sbarchi – ma a quale prezzo?

I dati sugli sbarchi mostrano una riduzione significativa fra il 2016 e il 2017: a fine ottobre 2017, quando gli gli sbarchi erano poco oltre i 111 mila – erano  calati del 30 per cento rispetto all’anno precedente.
La riduzione sembra soprattutto riconducibile al contestato accordo con la Libia: dall’inizio dell’anno a giugno, infatti, sono arrivati in 84 mila (oltre il 19 per cento in più rispetto al 2016). Dopo l’accordo con Tripoli, invece, i numeri hanno subito un brusco calo, e ora la percentuale è il 30 per cento in meno rispetto al periodo corrispondente del 2016 (114 mila contro 164 mila).

Anche se il rapporto non si sofferma sulle conseguenze degli accordi con la Libia e del conseguente calo nelle partenze, sappiamo che la situazione in Libia è gravissima. A denunciarlo non sono soltanto i media e le organizzazioni non governative, ma anche le Nazioni Unite: un recente rapporto del Commissario Onu per i diritti umani ha denunciato con durezza la situazione nei centri di detenzione libici (“un affronto all’umanità”), proprio lo stesso giorno in cui il Comitato ONU contro la tortura chiedeva all’Italia di rendere conto delle atroci violenze e torture a cui si stanno esponendo migliaia e migliaia di migranti bloccati in Libia, mentre preoccupano i continui episodi violenti in cui è coinvolta la Guardia Costiera libica nel Mediterraneo. Allo stesso tempo, preoccupa la e

La stretta sui salvataggi in mare delle Ong – con quali conseguenze?

Tornando al rapporto, è interessante che delle 178 mila persone salvate in mare nel 2016, un terzo (oltre 60 mila) siano state soccorse da Ong o navi mercantili.

Il che rende naturale una riflessione su quella che Marco Bertotto, responsabile dell’advocacy di Medici Senza Frontiere, definisce una “vera e propria campagna di diffamazione” contro le Ong impegnate nei salvataggi in mare, che si sono viste costrette a ridurre, quando non a cessare del tutto, le proprie missioni di ricerca e salvataggio.

Chi chiede (e chi ottiene) protezione

Il rapporto spiega che nel 2016 sono state presentate 123.600 richieste di protezione internazionale, cioè quasi il doppio rispetto alle 84 mila del 2015. Il richiedente asilo “tipico” è africano (in oltre 7 casi su 10) e di sesso maschile (85 per cento) – benché si sia registrato un sensibile aumento di domande presentate da donne (che salgono dall’11,5 per cento del 2015 al 15 per cento del 2016). La fascia d’età prevalente è quella che va dai 18 ai 34 anni (80 per cento), ma si registra un record assoluto nel numero di minori (oltre 28 mila, di cui il 92 per cento non accompagnati). I primi cinque paesi d’origine dei richiedenti sono Nigeria, Pakistan, Gambia, Senegal e Costa d’Avorio.
Nel primo semestre del 2017 crescono le domande di protezione: oltre 77 mila, e cioè il 44 per cento in più rispetto al primo semestre del 2016. Rimangono più o meno invariate le caratteristiche di età e genere, ma cambiano le nazionalità: permane il primato dei nigeriani, ma al secondo posto ci sono ora i bengalesi (e questo in gran parte è dovuto, ancora una volta, alla situazione in Libia – dove sono diventati un obiettivo per i gruppi criminali).

Un punto importante prima di guardare agli esiti: il numero di domande di protezione presentate è storicamente sempre inferiore al numero di sbarchi (considerando l’arco temporale 1999-2016, fanno eccezione a questo assunto solo 2009, 2010 e 2012) – e la forbice tra chi arriva e chi chiede asilo si allarga in modo consistente negli anni delle emergenze umanitarie: il 1999 del Kosovo, il 2011 delle Primavere arabe, il 2014 delle guerre nei paesi del Nord Africa. Un segmento significativo di “potenziali richiedenti” non presenta dunque domanda di protezione, e questo soprattutto perché, per la maggior parte degli immigrati provenienti dalla Siria o dal Corno d’Africa, l’Italia è solo il primo approdo verso la destinazione finale in altri paesi europei. I migranti provenienti dai paesi dell’Africa centro-occidentale presentano invece un rapporto tra arrivi e richiedenti protezione più prossimo alla parità, anche se poi hanno un alto tasso di dinieghi. E questo smentisce che lo scarto tra numero degli sbarcati e numero delle domande d’asilo indichi la presenza di una consistente percentuale di “non aventi diritto” alla protezione internazionale.

Per quanto concerne gli esiti, nel 2016 le Commissioni territoriali hanno esaminato oltre 91 mila richieste – dando esito positivo a oltre il 40 per cento: solo il 5 per cento ottiene lo status di rifugiato, mentre al 14 per cento viene riconosciuta protezione sussidiaria e al 21 per cento è rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari. I dinieghi sono oltre il 56 per cento, in aumento rispetto al 2015, quando erano al 50 per cento. Qualcosa di analogo succede nel primo semestre del 2017: le domande esaminate sono circa 41.400, di cui il 43 per cento con esito positivo (il 9 per cento ottiene lo status di rifugiato, il 10 per cento la protezione sussidiaria, il 24 per cento un permesso di soggiorno per motivi umanitari).
Tanto nel 2016 quanto nel primo semestre del 2017, le richiedenti donne hanno un tasso di accoglienza delle richieste maggiore rispetto agli uomini e si registra un maggior numero di esiti positivi riconosciuti ai minorenni e agli ultrasessantacinquenni rispetto alle fasce intermedie. Per quanto concerne le aree geografiche, ai migranti originari di America ed Europa nella maggioranza dei casi è accordato un esito positivo, mentre per i migranti provenienti dall’Africa le domande respinte sono circa 6 su 10.

Volendo mappare invece gli esiti rispetto alle Commissioni, il quadro è molto eterogeneo: nel 2016, tra le Commissioni che hanno emesso parere positivo riconoscendo almeno una forma di protezione internazionale, in misura nettamente superiore rispetto alla media nazionale del 40 per cento sono state Caserta (che sfiora il 95 per cento di esiti positivi), Gorizia, Palermo, Siracusa I/Caltanissetta e Roma. I tassi di non riconoscimento più alti, invece, si registrano nelle Commissioni territoriali di Brescia/Bergamo (quasi l’87 per cento), Bari I, Firenze/Perugia e Roma/Frosinone.
Importante rilevare anche la mole di arretrati in Commissione: nel 2016 le pratiche pendenti, e cioè le richieste da istruire a cui non è stata ancora notificata la data di convocazione, ammontano in totale a quasi 106 mila (circa 40 mila in più rispetto al 2015); nel primo semestre 2017 si arriva a un totale di oltre 140 mila. Le Commissioni con più arretrati sono quelle di Milano, Bologna e Torino.

Cresce l’accoglienza diffusa, ma permangono emergenzialismo e disomogeneità

I migranti inseriti nel sistema d’accoglienza italiano al 31 dicembre 2016 sono 188 mila, poi ancora aumentati nel primo semestre del 2017, quando si sono superati i 205 mila, in un trend di crescita costante nell’ultimo quinquennio.

Se è da festeggiare la crescita della capienza dell’accoglienza diffusa nel circuito Sprar (che supera le 35 mila persone, pari a quasi il 19 per cento), non si può non notare come quella crescita – oltretutto disomogenea sul territorio – non basti.

La stragrande maggioranza dei migranti – oltre 137 mila, pari al 73 per cento del totale (con un aumento del 79 per cento rispetto al 2015) – è ancora accolta nel circuito emergenziale dei Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas). In altre parole, nonostante le reiterate promesse di abbandonare l’approccio emergenziale, continua e anzi aumenta il ricorso all’accoglienza straordinaria. Con tutto ciò che ne discende: poca trasparenza, pochi servizi, percorsi di accoglienza molto  limitati (e quindi con meno possibilità di successo nell’integrazione), sfruttamento degli operatori e via dicendo.

E qui, si noti: il capitolato per la fornitura di beni e servizi relativi al funzionamento dei centri di accoglienza, salutato come una rivoluzione di trasparenza e efficienza, in realtà pare quasi pensato “per mettere i bastoni fra le ruote agli Sprar” (come ha commentato l’Asgi) – essendo costruito sul paradigma dei centri da più di 300 posti, e fondato sul criterio di scelta degli appalti sulla base dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Insomma, regole che favoriscono i grandi centri: l’esatto opposto del modello Sprar, che invece ruota intorno all’idea di centri piccoli e progetti di accoglienza costruiti su misura, con attenzione alla qualità effettiva dei percorsi di integrazione.

Infine, non si può non sottolineare il dato della disomogeneità nella distribuzione dell’accoglienza nella rete Sprar: nelle regioni del Sud e del Centro ci sono molti più centri Sprar di quanti non ce ne siano nel Nord. Se infatti in Sicilia e nel Lazio le presenze negli Sprar sono oltre il 19 per cento del totale e in Puglia e Calabria circa il 10 per cento, le regioni del Nord sono tutte sotto il 3,5 per cento (tranne Lombardia e Piemonte, che si attestano rispettivamente su 6 per cento e 5 per cento).
In generale, le regioni con il maggior numero di posti in accoglienza sono Lombardia, Lazio, Sicilia, Piemonte, Campania e Veneto. Record negativo per l’accoglienza per la Valle d’Aosta: nemmeno uno Sprar, nemmeno 300 persone accolte in tutto.

Focus sugli esclusi dal sistema

A margine, una riflessione doverosa sugli “esclusi dal sistema”. Le polemiche seguite allo sgombero forzato dell’occupazione abitativa di piazza Indipendenza – che ha abbandonato per strada centinaia di rifugiati eritrei – offrono infatti lo spunto per prendere in considerazione la condizione di coloro che non accedono al sistema di accoglienza oppure ne escono senza che il loro percorso di integrazione sia compiuto. Questa esclusione dai circuiti di accoglienza e assistenza espone migranti, richiedenti asilo e rifugiati a una grave emarginazione, costringendoli a cercare soluzioni abitative di fortuna e adeguarsi a condizioni di vita inaccettabili. Nella maggior parte degli insediamenti informali manca qualsiasi tipo di intervento strutturato da parte dei soggetti istituzionali e le attività di assistenza primaria sono demandate alle organizzazioni umanitarie e di volontariato. Un esempio eloquente è dato dalla situazione romana: la nostra è infatti l’unica capitale europea senza un piano accoglienza, e troppo spesso ad assistere i migranti ci sono soltanto i volontari. Grave anche non conoscere la reale entità del problema, perché uno studio del 2016 di Msf è l’unica, parziale, mappatura su scala nazionale degli insediamenti informali abitati da richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria non inseriti nel sistema di accoglienza istituzionale.

Per maggior informazioni: openmigration.org