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Michelangelo, artista a modo suo «impegnato»

Frutto di una conferenza fiorentina del 1964, il saggio su Michelangelo politico di Giorgio Spini (1916-2006) ha attraversato indenne (e anzi ne esce rafforzato) mezzo secolo di studi sulla storia istituzionale della Firenze rinascimentale e di storia dell’arte sulla figura del grande toscano celebrato da Giorgio Vasari nelle Vite.

Nell’indagine sulla «politicità» di Michelangelo Buonarroti – sia nelle testimonianze dei contemporanei sia nei suoi scritti e nei grandi capolavori dipinti e scolpiti, in un continuo andirivieni tra la «sua» Firenze e la Roma pontificia – Spini non si fa mai prendere la mano dalla tentazione di rintracciarvi a tutti i costi significati simbolici nascosti, tentando anzi di comprendere le difficoltà dell’artista di mantenere una coerenza politica di fronte agli avvenimenti del tempo e in relazione alle sue tradizioni familiari. Proprio alle radici familiari e all’importanza che queste rivestivano nella vita sociale e politica di un cittadino fiorentino del XVI secolo, in cui le memorie del lignaggio trasmettevano attraverso le generazioni un’identità civica da salvaguardare e onorare, Spini dedica bellissime pagine nella prima parte del saggio.

Una politicità, quella di Michelangelo (cittadino e artista), che ci restituisce una forma di patriottismo non campanilistico né legato alla necessità di dimostrare una superiorità culturale che sembra promettere l’ascesa della stirpe medicea (come per Vasari), ma una «fiorentinità» che intreccia ragioni di sopravvivenza economica con un’appartenenza civica che affonda le sue radici nel passato del retaggio familiare. Di qui le sofferte scelte del Buonarroti nel conciliare questi aspetti; un’equidistanza (piuttosto che una «ambiguità», come scrisse Vasari) dovuta anche alla salvaguardia della relativa «libertà» della sua professione. Giustamente, per Spini, «Michelangelo fu bensì artista “impegnato” rispetto ai problemi della propria età, ma fu appunto artista, e non uomo politico»; non soltanto perché «titanica nella storia spirituale ed artistica del Rinascimento, la sua presenza nella vita politico-sociale è un episodio marginale nella storia fiorentina del Cinquecento», ma anche perché egli è conscio del fatto che la «libertà» dell’artista – anche per un «gigante» del Rinascimento – era pur sempre assai limitata, in relazione alla necessità di sopravvivere garantendosi la possibilità di ricevere committenze da personaggi di spicco impegnati su fronti politici da lui non necessariamente condivisi.

Questa lettura resta valida anche per quanto riguarda l’aspetto religioso dell’attività di Michelangelo il quale, soprattutto nei momenti di travaglio non solo politico della sua città ma anche personale e professionale, trovò conforto nella lettura della Bibbia, nei decenni iniziali del Cinquecento in un clima spirituale assai acceso, e non soltanto dal messaggio della predicazione di Savonarola appena messo al rogo.

Tutti questi elementi rendono fortemente intriso di senso civico il contributo di Giorgio Spini (come la maggior parte delle sue opere), esplicito nell’invito alla comprensione del travaglio personale di chi abbia vissuto sotto regimi tirannici. Infatti, il riferimento alla propria biografia durante il regime fascista incrocia la storia dell’arte: «Stanco di tante distruzioni, tanti morti, tanta bestialità insensata», gli torna alla mente l’incontro con capolavori dell’arte italiana messi in salvo dal saccheggio del nemico, fra cui la Primavera di Botticelli: «se è vero, come dicono che la patria è ciò per cui vale la pena morire, allora la mia patria è la Primavera» (ricorda nella sua prefazione lo storico dell’arte Tomaso Montanari, autore qualche anno fa di un pamphlet sull’uso politico dell’arte in Italia intitolato, non a caso, A cosa serve Michelangelo?, Einaudi 2011).

 

* Giorgio Spini, Michelangelo politico, prefazione di Tomaso Montanari, presentazione di Valdo Spini. Milano, Unicopli, 2017, pp. 147, euro 10,00.