ponticelli

Tutti i rischi del vuoto educativo

Napoli è ancora sotto choc per quello che è successo una settimana fa nel quartiere Chiaia, zona considerata il «salotto bene» della città: sei minorenni sono rimasti feriti durante una sparatoria avvenuta nella notte tra sabato 18 e domenica 19 novembre. Come spesso accade nei weekend, migliaia di ragazzi affollavano le strade e i baretti della zona; ad un certo punto due gruppi di ragazzi tra i 14 e i 19 anni, alcuni dei quali provenienti dall’hinterland partenopeo e già noti alla polizia, si sono affrontati: dalle parole si è passati alle armi. Dopo la lite, infatti, alcuni dei contendenti si sono allontanati per tornare a bordo di uno scooter e sparare contro l’altro gruppo. Nessuno dei feriti è in pericolo di vita.

Ciò che turba profondamente è che la violenza sia agita da giovanissimi. Dai primi riscontri delle Forze dell’ordine emerge che i ragazzi vengono dalle periferie della città, e molti hanno abbandonato già da tempo la scuola. La Campania è terza per percentuale di abbandono scolastico dopo la Sardegna e la Sicilia, e San Giovanni a Teduccio (quartiere da cui provengono alcuni dei ragazzi coinvolti nella sparatoria) si contende con Scampia il triste primato dell’area più colpita. Chi non va a scuola, dorme fino a mezzogiorno, poi vivacchia, ciondola in strada o scorrazza sui motorini. In quelle aree metropolitane la disoccupazione sfiora il 70%, e quei giovani senza scopo sono facilmente arruolabili nelle fila della criminalità organizzata, che dà loro un’identità forte attraverso il facile guadagno e l’altrettanto facile possesso di un’arma da fuoco. Le frustrazioni, le paure, il disagio, la devianza che quotidianamente questi ragazzi vivono nelle periferie, si riversano senza controllo nel cuore della città nei fine settimana. Per Salvatore Cortini, che da oltre 30 anni lavora con la devianza giovanile, dall’osservatorio privilegiato del Centro sociale «Casa Mia-E. Nitti» a Ponticelli, uno dei territori più degradati della periferia di Napoli, la violenza sta subendo un’accelerazione preoccupante. «Il problema va affrontato sicuramente con un maggiore investimento nella sicurezza, ma questo da solo non basta. Occorre ripartire dalla riqualificazione delle periferie. A Ponticelli dopo le 7 di sera è una desolazione: tutti i negozi chiudono, non ci sono luoghi di incontro e di intrattenimento. Prima sul territorio erano presenti i partiti politici che tenevano in vita un’attività politica, sociale, culturale che offriva risposte alle problematiche dei cittadini. Poi, i grandi partiti sono finiti e sono rimaste delle associazioni culturali e di volontariato che, a seguito dei tagli delle risorse al terzo settore, faticano a tenere in vita le loro attività. Le periferie abbandonate sono il dramma delle città; bisogna investire su di esse se si vuole contrastare la violenza assunta a modello da tanti giovani».

Da dove si comincia? Carlo Signore, esperto in psicologia criminale che da diversi anni si occupa di bullismo, chiama in causa la mancanza di una politica di contrasto, di prevenzione e soprattutto di formazione. «In diverse nazioni, come la Germania, dove si sono presentate simili problematiche, – ha riferito Signore – i governi hanno investito nelle politiche di prevenzione e di formazione, a cominciare dalle scuole. Sono convinto che bisogna rivolgersi non solo ai ragazzi, ma soprattutto agli educatori. Occorre fare un lavoro serio e capillare nelle scuole, nelle associazioni, nelle chiese, nelle famiglie, dove purtroppo riscontro sempre maggiore difficoltà a trovare persone che si vogliano impegnare. Credo, invece, che strategico sia il ruolo educativo dell’adulto che è chiamato ad affrontare nella maniera pedagogicamente più adeguata questo problema».

Che ci sia un vuoto educativo da parte degli adulti è evidente: dove sono i genitori di questi ragazzini che fino alle 4 del mattino stanno ancora per strada a bere alcolici? Esiste una miseria relazionale prima ancora di quella economica. «Presso il nostro Centro – aggiunge Cortini – ci sono al momento tre minori che fanno la “messa alla prova”: uno ha commesso uno scippo e proviene da una famiglia camorristica, ma le altre due persone sono ragazze, ree di aver commesso un piccolo furto in un negozio, che frequentano il liceo classico e appartengono a famiglie perbene, economicamente benestanti. Cosa sta succedendo? La verità è che non sappiamo più ascoltare: le famiglie non sanno più ascoltare i propri figli; la scuola, le istituzioni, la politica non ascoltano più i propri interlocutori, e neanche la chiesa sa più ascoltare. Le chiese cristiane vivono una profonda crisi di partecipazione ai culti domenicali, e credo che il motivo sia da rintracciare anche nel fatto che esse non siano più capaci di ascoltare l’altro e i suoi bisogni». Colmare un deficit di ascolto per ridurre distanze, per sminare conflitti, per contrastare la violenza: un punto di partenza dal quale anche le chiese della Riforma possono fare la loro parte, riscoprendo la vocazione ad essere «laboratori dell’ascolto», luoghi in cui ascoltare prima la Parola della vita, per ascoltare poi i bisogni e le speranze del prossimo, a cominciare dai più giovani.

 

Foto di Marta D’Auria