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Qui abitò Giosuè Gianavello…

Il prossimo venerdì 1 dicembre a Ginevra verrà scoperta una targa in ricordo di Giosué Gianavello, che in questa città trovò rifugio e visse gli ultimi anni della sua vita, morendo lontano dalle amate valli, in esilio perpetuo.

L’iniziativa è stata promossa dalla città stessa, che con una delibera lo scorso 17 maggio ha voluto ricordare «il rifugio ginevrino di un eroe dei valdesi del Piemonte», in occasione dei 400 anni dalla sua nascita.

Davanti al n. 13 di Rue de la Madeleine, dove sorgeva la locanda del «leone di Rorà», alle 11 si ritroveranno le autorità e i cittadini, ma non solo, insieme a una delegazione rorenga, per inaugurare la targa, rigorosamente in pietra di Luserna e donata dal Museo valdese di Rorà.

La targa ricorda che «qui sorgeva l’albergo Du Flacon dove visse e morì l’esiliato Giosuè Gianavello (1617-1690) resistente valdese del Piemonte»: esiliato e resistente, cioè protagonista di un’azione di resistenza, due parole chiave per capire l’identità del personaggio.

Ma non è tutto qui, come osserva il pastore valdese e storico Giorgio Tourn (rorengo doc): «Questa targa rievoca un ricordo, ma fa più di questo: rende una testimonianza e pone delle domande alla nostra coscienza».

Gianavello è figlio di una minuscola enclave protestante nelle Alpi, ricorda il pastore Tourn, quella valdese, sopravvissuta a secoli di persecuzioni. «Nel 1655 l’armata francese attraversa le Alpi diretta verso la Lombardia, per combattere contro gli spagnoli. Il duca di Savoia l’alloggia nelle valli valdesi, concedendo ai soldati ogni libertà, perché spera di terrorizzare i suoi sudditi e farli abiurare».

Ne segue un autentico massacro, ed è qui che il nostro uomo entra in scena: Gianavello «prende le armi per difendere il suo mondo, che rischia di scomparire, la libertà di coscienza della sua gente, e organizza con una dozzina di compaesani una banda che riesce a bloccare l’offensiva». Il gruppo ha un doppio vantaggio: «agisce nel nome di un ideale, e conosce i luoghi, mentre i mercenari del duca vanno alla ventura, e non pensano che al bottino che li aspetta».

Il conflitto dura a lungo, a momenti sembra risolversi ma riprende sempre più cruento: è in questo periodo travagliato che Gianavello e i suoi uomini danno origine a una situazione inedita per l’ars bellica del tempo: inventano la resistenza, la «macchia».  Fino ad allora, spiega il pastore Tourn, «l’Europa conosceva solo guerre e rivolte, cioè conflitti tra eserciti mercenari o sommovimenti popolari contro le ingiustizie e l’oppressione dei signori. La guerriglia di Gianavello non è una rivolta ma una difesa organizzata: una difesa non solo dei beni materiali, ma dei diritti di una comunità, dei suoi valori».

In questo il contributo letteralmente strategico del contadino Gianavello è fondamentale: le sue Istruzioni danno al piccolo gruppo di soldati non professionisti gli strumenti per difendersi e per vincere. Il loro carattere innovativo è dimostrato dal fatto che sono utilizzate ancora oggi dall’Accademia militare di Modena.

Ma un conflitto di questo genere non può giungere a una soluzione definitiva: Gianavello e i suoi devono alla fine rifugiarsi in paesi protestanti, come appunto la Svizzera e Ginevra.

E qui s’innesta secondo Tourn il secondo elemento rappresentato dalla targa, quello della testimonianza: si ricorda «la solidarietà fraterna che nel corso dei secoli ha legato la città alla comunità valdese: è qui, all’Académie, che i suoi giovani hanno studiato, è qui che numerose iniziative hanno preso avvio per soccorrere la nostra miseria, è al riparo dei suoi bastioni che i nostri profughi hanno trovato rifugio».

Gianavello è stato uno di questi, ma non era certo un profugo qualunque: sulla sua testa pendeva una taglia di 200 scudi, potremmo dire che era un latitante, un ricercato internazionale. Eppure trascorre nella città molti anni, in modo riservato, continuando a mantenere rapporti con i suoi correligionari in Piemonte, al punto che, al momento tragico dell’esilio in massa dei valdesi in Svizzera, nel 1686, organizzerà la spedizione armata che li riporterà nelle loro montagne nell’agosto 1689, in quello che è conosciuto come il Glorioso Rimpatrio.

«Possiamo pensare», si chiede ancora il pastore Tourn, «che le autorità ginevrine ignorassero i rischi legati alla presenza in città di un personaggio simile, sul piano diplomatico internazionale? Li conoscevano perfettamente, eppure gli diedero modo di vivere… Una solidarietà religiosa, certo, umana, ma anche la testimonianza eloquente resa ogni giorno da quest’uomo al coraggio e all’indipendenza di questa città».

La storia di Gianavello ci porta indietro al XVII secolo, è la conclusione dello storico:

«Un passato così lontano che sembra non avere alcun rapporto con noi, ma che basta rievocare per vederlo ricalcato nei nostri giorni: quello che è successo allora succede oggi, quello che gli uomini, le donne e i bambini hanno vissuto allora è esattamente quello che uomini, donne e bambini stanno vivendo oggi in Siria, in Libia, in Bangladesh… La domanda che la targa ci pone è questa: dove sono oggi le Ginevre del 1660?»